Manca una mezzora all’inizio del concerto. Dalle potenti casse preparate dall’Area Sismica per il primo appuntamento musicale all’aperto della stagione escono le note inconfondibili traumatiche affascinanti della Sagra della primavera di Stravinskij. Versione di Leonard Bernstein sul podio della London Symphony Orchestra. Che cosa vorrà dire? Semplice (pensiamo): che gli Zu, storico trio di post-punk, post-rock, post-ultra-free, noise ecc. ecc. e il loro ospite Mats Gustafsson, stesse qualifiche con l’accento sull’ultra-free più forte, vogliono proporre un nesso tra la potenza ritmica, la dinamitarda potenza ritmica, la spregiudicatezza timbrica, il clima ossessivo di quel gran capolavoro e la loro poetica. In effetti un nesso c’è. Ma è proprio sul piano dell’impatto sonoro di certe parti del Sacre, di quella vera e propria violenza sonora, che il filo del collegamento si fa più sottile. Perché gli Zu – al cui pensiero Gustafsson si adegua – sembrano mancare di radicalità nella loro idea di suono-rumore e nella loro idea di ossessione ritmica e di ribadimento di cellule melodiche elementari. Non si parla di livello qualitativo, s’intende. Si parla di una visione in cui l’aspetto della violenza sonora è contenuto, sviato sul tono «cordiale» delle cellule melodiche ribadite.

Chiaro che i momenti in cui la massa sonora organizzata in comparti ripetuti ossessivamente sono i momenti migliori. Al sax baritono di Luca Mai si aggiunge il sax baritono di Gustafsson. Ma il basso di Massimo Pupillo e la batteria di Jacopo Battaglia (ritornato nel gruppo dopo un’assenza di anni) non si limitano alla scansione regolare: uno si butta in «strappi» e «allungamenti» quasi psichedelici delle note, l’altro ricorda solo per la forza del battito la percussione rock perché invece usa una metrica irregolare che arricchisce il quadro sonoro generale.

Certi brani su tempo medio, quasi di marcia, sono occasione per Gustafsson di inserire nelle cellule ritmico-melodiche elementari, sorta di riff, le varianti in sovracuto che sono la sua specialità di ultra-free jazzman (tra le altre cose…). C’è poi l’intervento dell’elettronica (Mai e Gustafsson) in certi passaggi. E qui non è tanto l’uso dei suoni sintetici quanto la filosofia della dilatazione che suggerisce varianti curiose al set dei quattro performer.
Sono i passaggi in cui ai due baritonsassofonisti viene in mente di emettere suoni estremi, terrifici, come di animali scuoiati. Un eccesso di naturalismo, si direbbe. Ma anche questo è parte del mondo Zu.

C’è del naturalismo nella risposta di Pupillo, dopo il concerto, a una osservazione sul concetto di violenza sonora tra Stravinskij e Zu-Gustafsson. «Non c’è violenza», dice. La parola lo disturba un po’. Forse perché gli Zu coltivano un’idea di natura buona da omaggiare. E infatti la omaggiano, in un certo senso, quando il duo di sassofonisti si lancia in alterazioni dei timbri e dei registri degli strumenti con borbottii e urla molto lontani da ogni astrazione.