È stato sospinto da un vento fresco e teso che ha tenuto lontana la pioggia, il corteo di Non Una Di Meno che ieri ha riempito il centro di Roma. Al suo quarto anno di mobilitazione, il movimento transfemminista sorprende, nei numeri e nello slancio. Centomila persone, secondo le organizzatrici, hanno conquistato le vie della città, da piazza della Repubblica fino a San Giovanni. Senza quasi mai smettere di ballare.

IMPOSSIBILE dare conto di tutti i collettivi, consultori, centri antiviolenza, associazioni, spazi femministi, reti informali, e gruppi di affinità, venuti da tantissime città d’Italia, che uno accanto all’altro si sono addensati e mischiati, formando una folla strepitante.

NONOSTANTE LA PRESENZA al concentramento di alcune personalità politiche, la manifestazione è quasi del tutto priva di simboli partitici e sindacali. Spuntano invece ovunque matrioske, uno dei simboli del movimento, maschere da luchadora (lottatrice) in solidarietà alla Casa delle donne Lucha y Siesta, «panueli» fucsia che richiamano il movimento argentino, cappelli da strega e una profusione di glitter. Altro segno distintivo, portato da tante manifestanti, una lacrima disegnata sulla guancia, in memoria di “El mimo”, Daniela Carrasco, artista di strada colombiana fermata in Cile dai militari e ritrovata dopo poche ore torturata e uccisa. «Ci vogliamo vive» è una delle frasi ricorrenti della giornata, che si colloca a ridosso della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne, che sarà lunedì 25.

«C’È UNA GRANDE contraddizione in questo paese» dice Lella Palladino, presidente della rete dei centri anti violenza Di.Re «da qualche anno si parla, finalmente, di violenza maschile, ma la violenza non cessa, anzi i dati parlano di un incremento. Si affronta ancora la questione in maniera emergenziale e securitaria, dando risposte giuridiche e mai sociali e politiche. La situazione dei centri è drammatica, siamo a rischio di chiusura in molti territori, le risorse ci arrivano in maniera discontinua e disomogenea, in alcune regioni non arrivano affatto». Sul tema della violenza interviene Deborah, la sorella di Elisa Pomarelli, che dedicaalla sorella morta per femminicidio una lettera, parole di amore e rabbia.

A METÀ PERCORSO tutte le persone presenti, seguendo le indicazioni che vengono dal camion, si siedono a terra e restano in silenzio per qualche minuto. Una quiete irreale mavvolge tutta la lunghezza del corteo. Un grido muto per tutte le donne che non hanno più voce. Un silenzio deflagrato poi in un grido collettivo, con il quale la manifestazione si rialza e riprende il cammino. «Questa è una piazza che sa anche piangere» si sente dire dal microfono da una delle organizzatrici «che sa contenere il dolore, e trasformarlo in sorellanza».

MA PER CHIUNQUE abbia attraversato anche solo per pochi minuti il corteo di ieri, è evidente che quella femminista è una piazza capace di produrre anche gioia piena, ancora, dopo quattro anni di lotta. «Secondo me il femminismo adesso è il campo di lotta più credibile, accanto all’ecologismo», spiega Linda, 24 anni di Roma, «C’è una penetrazione profonda delle istanze femministe nella mia generazione. Anche se con molte sfumature: alcuni pensano che l’obiettivo sia garantire alle donne ruoli di potere. Bisogna affermare altri valori e mettere in discussione la struttura patriarcale dalla base».

LE PAROLE DI LINDA raccontano una larga fetta di partecipazione al corteo: giovanissimi e giovanissime che attraversano anche gli scioperi globali per il clima. «Le donne oggi rappresentano l’80 per cento dei rifugiati climatici. La causa è un sistema che ha nel proprio dna lo sfruttamento dei territori, un’accumulazione sfrenata. Se sotto attacco è la vita, la vivibilità degli ambienti, la salute, sono spesso le donne le prime a rispondere, perché storicamente sostengono il peso della riproduzione e della cura».

TEMI CENTRALI della giornata sono l’antirazzismo e la connessione con il movimento femminista globale. Segnalato con adesivi e cartelli il Monumento dei Caduti di Dogali, memoriale di battaglia dell’esercito italiano nel 1887 in Eritrea. «Almeno un milione di persone che vivono in Italia non hanno la cittadinanza, viviamo nel perpetuo ricatto del permesso di soggiorno, senza essere riconosciute a pieno come parte dei territori dove apparteniamo» spiegano le attiviste della rete Italiani Senza Cittadinanza.

A PIAZZA VITTORIO invece, luogo simbolo delle comunità migranti romane, è il momento di un intervento dedicato alle donne curde, simbolo di una lotta per l’autodeterminazione che mai prescinde dalla liberazione femminile.

IL CORTEO SI CONCLUDE a piazza San Giovanni ma la mobilitazione non è finita. Oggi al quartiere San Lorenzo sarà il momento del confronto per la rete Non Una Di Meno. Una discussione articolata in tavoli tematici e momenti di assemblea plenaria. Questo movimento, di cui si parla poco e quasi solo in occasione delle ricorrenze di lotta, ha portato in piazza anche questa volta un’energia inconsueta. Qualcosa è cambiato e sta cambiando. Il contagio transfemminista non accenna a fermarsi.