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Matisse, il paradiso tipografico nella cattività nizzarda

Matisse, il paradiso tipografico nella cattività nizzardaHenri Matisse, "Le Cheval, L’Ecuyère et Le Clown", 1943-’44, dal libro "Jazz", 1947, Parigi, Centre Pompidou

Louise Rogers Lalaurie, "Matisse. I libri", Einaudi Tra il 1941 e il 1946, tra l’Hotel Regina a Cimiez e Ville Le Rêve a Vence, Henri Matisse rispose con una performance di libertà su carta bianca alla tragedia nazista e alla propria crisi creativa

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 24 gennaio 2021
Matisse con Fernand Mourlot all’Atelier Mourlot Paris, circa 1948

 

«Sono paralizzato da un non so cosa di convenzionale che m’impedisce di esprimermi come vorrei in pittura…»: così nel gennaio 1940 Henri Matisse si confidava via lettera a Pierre Bonnard. «Ho una pittura impastoiata dalle nuove convenzioni di tinte piatte… Tutto questo non si accorda con la spontaneità». Erano momenti di grande inquietudine per Matisse, la situazione attorno stava precipitando con la Wehrmacht alle porte, gravi problemi di salute lo assillavano. Aveva anche confidato di avere sul passaporto il visto datato 1 aprile 1940 per rifugiarsi in Brasile. Era stato Picasso a farlo tornare sui suoi passi e a convincerlo a non lasciare la Francia. Così alla firma dell’armistizio il 22 giugno 1940 Matisse aveva lasciato Parigi per rifugiarsi a Cimiez, sopra Nizza, nella Francia controllata dal governo collaborazionista.
Prendeva così il via quella che la studiosa Louise Rogers Lalaurie ha definito «una performance di libertà nella “cattività”», in quanto Matisse per tutto il periodo dell’occupazione sarebbe stato tenuto sotto stretta osservazione dell’autorità di Vichy. La Lalaurie è autrice di un libro che incredibilmente mancava nel vasto e quasi bulimico panorama editoriale dedicato al grande maestro francese: un libro sui suoi «libri»: Matisse I libri (Einaudi, «Grandi Opere», pp. 318, oltre 200 ill., euro 80,00). Tra 1941 e 1946 l’artista ne realizzò ben sette (anche se alcuni vennero stampati a guerra conclusa), che si sono aggiunti al Mallarmé disegnato e pubblicato invece tra 1930 e 1932.
Se a Bonnard Matisse aveva confessato di essere a un punto morto con la pittura, a Louis Aragon aveva invece rivelato di essere «arrivato al culmine dei miei sforzi con il disegno»: era quello il suo nuovo focus, originato da ragioni creative ma suggerito anche da condizioni esterne, come la sua debolezza fisica per la malattia e ovviamente il contesto politico. Nei quattro anni di questa sua «cattività», dividendosi tra le stanze dell’Hotel Regina a Cimiez e Ville Le Rêve a Vence, Matisse ha finito con il concentrarsi su un complesso di progetti editoriali di grande impegno, che oggi possiamo finalmente scoprire in tutta la loro coerenza e importanza. Non si era trattato di una scelta di ripiego; piuttosto siamo di fronte al cantiere di un artista che esplora una soluzione in grado di portarlo fuori da quell’impasse nei confronti della pittura.
Con i libri Matisse s’inoltra in un mondo nuovo, quasi verginale, proprio come il bianco della carta sulla quale andava a depositare con straordinaria varietà i suoi segni. «Uno strano cielo in potenza… un cielo bianco, un cielo di carta», è la bellissima definizione escogitata da Aragon. I libri di Matisse sono integralmente di Matisse, perché nascono da sue scelte, o meglio da sue preferenze. Ha bisogno ogni volta di entrare in intimità con un testo come condizione perché scatti il meccanismo poetico e creativo: il disegno prende il volo nella relazione con le parole, in un gioco di complicità che arriva a generare intrecci visivi e concettuali stupefacenti.
Come interlocutore, più che gli editori che si alternano di volta in volta, è decisivo il ruolo di un amico, André Rouveyre, conosciuto ai tempi dell’Accademia quando tutt’e due erano allievi di Gustave Moreau. Nei quattro anni in cui si concentrano i cantieri per i libri, i due sono in contatto quasi quotidiano con una corrispondenza fittissima: oltre 1200 lettere, che sono state pubblicate nel 2001. È Rouveyre a procurare in alcuni casi i testi a Matisse, come nel caso del Charles d’Orleans o delle lettere di Marianna Alcaforado, una sorta di Monaca di Monza lusitana.
Altro interlocutore chiave è Louis Aragon, che lo accompagna nella realizzazione del progetto più personale e forse più rivelatore, Dessins. Thèmes et variations: un percorso di soli disegni, organizzati con un’intrinseca sistematicità. In questo caso il testo è l’introduzione che Aragon scrive e che poi confluirà nel meraviglioso Henri Matisse. Roman, pubblicato nel 1971. Il titolo di quel testo introduttivo è molto significativo perché evidenzia e a suo modo risolve una criticità relativa alla posizione dell’artista. Henri Matisse en France suona come una garanzia a fronte del sospetto che Matisse avesse una posizione ambigua nei confronti del regime di Petain. Infatti uno dei libri sui quali aveva scelto di lavorare gli aveva procurato anche uno scontro con Rouveyre: è la Pasiphaé, poemetto di Henri De Montherlant, scrittore di destra e non ostile agli occupanti. «È un testo sul quale posso sognare», era stata la sua risposta alle contestazioni dell’amico. Il quale poi, davanti alla bellezza delle incisioni su linoleum realizzate da Matisse, lo aveva perdonato. «Hai dimostrato», gli scrisse, «come nessuno artista aveva mai fatto prima che il pretesto immediato può essere del tutto irrilevante».
Il sogno di Matisse è sogno che lascia trapelare anche angosce segrete: su tutte quelle per il destino della figlia Marguerite, che era entrata nelle file della resistenza e che sarebbe anche stata arrestata e torturata nel carcere di Rennes. Tra le incisioni della Pasiphaé ce n’è una meravigliosa e sottilmente agghiacciante con un profilo femminile che si inarca come per urlo muto. È immagine che fa memoria di un momento drammatico della vita di Matisse, quando la figlia, ancora bambina, venne sottoposta a un’operazione di tracheotomia d’emergenza per evitare il soffocamento e lui dovette tenerla ferma mentre il chirurgo interveniva: «L’angoisse qui s’amasse en frappant sur ta gorge», è il verso che accompagna l’immagine.
Matisse si concede la massima libertà nel concepire e realizzare i suoi libri. Adotta la tecnica che più gli sembra pertinente, allargando lo spettro del concetto di «libro d’arte» e spiazzando gli stessi bibliofili. Di volta in volta usa l’acquaforte, la litografia, la fotolitografia, la linoleografia (usata appunto per la Pasiphaé: segni bianchi su fondo nero), la xilografia, sino al gran finale di Jazz, dove gli originali realizzati con la tecnica del papier découpé sono riprodotti con la tecnica della stampa a pochoir. Nella messa a punto delle tecniche era assistito da Lydia Delectorskaya, l’insostituibile amante, modella, infermiera, segretaria che gli era stata al fianco nell’ultima stagione della sua vita (Lydia ha anche pubblicato le sue memorie, in un volume di lusso, carissimo, che purtroppo è circolato pochissimo: Henri Matisse. Contre vents et marées, 1996).
Il libro di Rogers Lalaurie ora finalmente permette di avere un quadro completo di questa cruciale stagione creativa di Matisse, che fino ad ora era rimasta ostaggio di un collezionismo poco propenso a valorizzare una produzione che in tanti casi è stata messa disordinatamente sul mercato, smembrando le singole immagini. Peccato che lo sguardo proposto resti di taglio antologico, perché mancano le necessarie vedute d’assieme dei singoli libri: poterli «sfogliare» visivamente anche in formato micro avrebbe restituito il ritmo che Matisse magistralmente conferiva ogni volta a queste sue creazioni. Aragon definisce le sequenze come «carambole», dove ogni carambola riprende la situazione di quella precedente.
Il gran finale è con Jazz, il libro certamente più noto, che ebbe un immediato e straordinario successo. Matisse resta deluso dalla stampa che aveva finito con l’appiattire la fisicità dei papiers découpés. Jazz è un felice capolinea che spalanca a Matisse un orizzonte che lo portava oltre quella «paralisi» per la pittura di cui aveva scritto a Bonnard. Jazz apre infatti la stagione dei grandi papiers découpés. Un nuovo capitolo della sua vita. Come lui scrisse a Rouveyre, «una seconda vita, in un qualche paradiso».

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