Mathieu Amalric è uno degli attori francesi più talentuosi della sua generazione. È suo il volto di uno degli ultimi personaggi che il cinema francese è riuscito a creare: Paul Dedalous in Comment je me suis disputé di Arnauld Desplechin. Negli ultimi vent’anni ha girato con Iosseliani, Spielberg, Wes Anderson, Roman Polanski, solo per citarne alcuni. Eppure, Mathieu Amalric ha sempre considerato la propria carriera d’attore come un’attività secondaria, accanto a quella di regista. Mentre, nonostante il successo di Tournée (2010), La Chambre Bleue (2014) e Barbara (2017), il pubblico e la critica continuano in fondo a vedere in lui un attore che ogni tanto si concede il vezzo di passare dietro alla macchina da presa.
E la ragione è probabilmente nel fatto che, invece di fare sempre lo stesso film, Amalric sembra al contrario fare sempre il suo primo film, sfidando in tal modo una mal compresa idea del concetto d’autore. Serre-moi fort, alla lettera stringimi forte, che ha aperto il nuovo festival di Villa Médicis a Roma, è stato presentato in prima mondiale al festival di Cannes dove ha ricevuto uno degli applausi più lunghi e convinti del festival.

Allora, com’è che ti sei ritrovato a fare un mélo?
Un amico mi ha fatto leggere una sceneggiatura teatrale dal titolo Je reviens de loin. L’aveva scritta Clotilde Galeat, e voleva metterla in scena lei stessa, ma non l’ha mai fatto. È scritta con un linguaggio molto grafico, tra Sarah Kane e Marguerite Duras. Ci sono dei monologhi, o delle canzoni, i personaggi sono indicati con delle lettere A, B, C, D… Mi ha colpito un’idea, quella di un curioso modo di aggirare il lutto: la protagonista, Clarisse, che ha perduto il marito e i figli in un incidente di montagna, immagina di essere partita per un viaggio, e in questo modo si illude che il marito e i figli sono a casa che l’aspettano. Ero in treno quando l’ho letta. E tutto ad un tratto mi sono messo a piangere come non mi capitava da anni. Mi sono fatto sedurre dal genere melodrammatico anche se mi sono reso conto quasi subito che nel testo di Galeat c’era un vizio formale. Solo alla fine, si capisce che il viaggio di questa donna non è reale, e che si tratta di un’illusione. Questo aspetto non mi piaceva. E non funziona bene con il genere.

Che cos’è per te il mélo?

È un delirio. È l’opera. Oppure è una catarsi. Per sbarazzarsi del male, ti inoculi il mélo, piangi, provi piacere a piangere, e allora sei vaccinato dal dolore. Spesso Vicky (Krieps, la protagonista femminile che recita nel ruolo di Clarisse, ndr) mi diceva : «Quello che stiamo filmando può succedere veramente?». Lei ha due figli. Conosci quel testo che si chiama Le Plaisir des larmes ? Sull’ambiguità che c’è nell’immaginare il proprio funerale… Nel melò c’è questo piacere qui.
Nel film in effetti si capisce quasi subito che il viaggio è illusorio. Ma la sua costruzione è assai complessa.
Dopo La Chambre bleue e Barbara mi ero detto, basta con le architetture complicate, basta con i film a matrioska. Nel prossimo racconto una storia nell’ordine cronologico, senza doppi sensi. E invece ci sono ricascato! Gli elementi del film sono anche nella sceneggiatura. Ma smontati e ricostruiti in una maniera diversa. Il mio lavoro è stato quasi quello di un archeologo. Ho catalogato delle parole e delle cose che si trovavano nel testo di Galeat. Poi ho rimesso le azioni nel loro ordine. Tutto comincia con un incidente, più o meno a novembre. La scena con i soccorritori nella neve. E alla fine c’è il ritrovamento dei corpi al disgelo, in primavera. Tra questi due momenti c’è una lunga attesa. Attesa terribile. Insopportabile. Ma inevitabile. Dopo due mesi circa una sua amica le suggerisce di fare un giro, di non rimanere a casa. Lei va in macchina verso il mare. Trova un lavoro per distrarsi. Poi si dice che l’alcool forse farà passare il tempo o il dolore più in fretta. Ma non funziona. Ritorna a casa, e cerca di distrarsi in un altro modo. Va nel quartiere dove sua figlia doveva cominciare delle lezioni di piano. E lì incontra una bambina che somiglia a sua figlia ma più grande. Cerca di giocare con il tempo.

Si direbbe che anche tu hai dovuto tribolare molto prima di mettere il punto finale al film.
La lavorazione, tra interruzioni e riprese, è durata un anno e mezzo:un’eternità. Sono passato attraverso delle fasi in cui l’ho detestato, non riuscivo ad accettarlo così com’era. E altre, per fortuna, in cui ho ricominciato ad amarlo.

È un film a tratti molto divertente. Una delle battute sembra fatta per irridere un certo moralismo contemporaneo. Clarisse è seduta in macchina, con la portiera aperta. Passa un tipo e le fa: «Bella macchina!» – come se indirizzasse all’automobile un commento che non si può più fare ad una ragazza. Lei piccata gli risponde: «E io che sono, un pomodoro ripieno?!».
Non volevo farne una santa che piange. Il terzo momento della lavorazione, a gennaio, ho detto a Vicky, fai come se li avessi dimenticati. Canta in macchina, divertiti, rimorchia degli uomini. Per fortuna c’è questo momento nel film, che altrimenti sarebbe soffocante. Quella scena l’abbiamo improvvisata una mattina in cui un attore mi aveva dato buca. Ho ripensato ad un’espressione americana che mi piace molto: « What am I, chopped liver?». Tradotto alla lettera non funziona. Ho pensato alla carne macinata, e per associazione alla farcitura e infine al pomodoro ripieno.

È difficile immaginare come un film così costruito possa essere in parte improvvisato.
Non abbiamo quasi mai girato con la sceneggiatura. Ogni mattino arrivavo sul set con dei fogli scritti la sera prima. E dicevo: «Dovevamo fare questo, ma non vale nulla. Allora facciamo un’altra cosa. Dobbiamo trovare questo e quell’altro, se ci riusciamo!». Spesso, ho dovuto fare i conti con il fatto che mi mancavano degli attori. Allora ho utilizzato i membri della troupe. Ci sono passati tutti: Victor è il capo elettricista, l’amica sulla terrazza è l’assistente alla regia. In alcuni casi ho ricominciato da zero. Penso alla scena della cucina. È estremamente complessa, ognuno ha un suo percorso e la voce di Vicky deve essere in sincronia con certe azioni. Lei era al piano di sopra con uno schermo del ritorno video e un microfono. Arieh (Worthalter, il padre, ndr) e i bambini giù in cucina, avevano degli auricolari per ascoltare quello che diceva lei. Abbiamo girato questa scena a maggio. E in novembre, quando l’ho vista al montaggio mi sono detto, forse dobbiamo rifarla. Ho detto a Vicky, mi piacerebbe che tu recitassi di nuovo il tuo dialogo nella cucina, ma da sola. Lei ha riascoltato il montaggio che avevo fatto, e lo ha imparato a memoria il testo così arrangiato. Poi l’ha rifatto, camminando, sedendosi, accendendosi una sigaretta. Quando ho rivisto la scena finita, ho pianto. Mi sono detto: ecco il mélo. È in questo stacco tra la cucina con loro, e la cucina con lei sola. E il fatto di averlo trovato, mi ha fatto bene. Ma, credimi, non voglio più fare dei film così. È troppo difficile.