Si chiama Materre il progetto cinematografico concepito nel contenitore di «Matera capitale europea della cultura». Coinvolge cinque poeti (l’italiano Domenico Brancale, il brasiliano/portoghese Nilson Muniz, gli spagnoli Yolanda Castano e Eduard Escoffet, la francese Aurélia Lassaque) e altrettanti registi (l’albanese Blerina Goce, la greco-francese Elena Zervopoulou, gli italiani Vito Foderà, Gianluca Abbate e Giuseppe Schillaci) per un discorso sul rapporto tra memoria e identità. Ispirato alla poesia di Rocco Scotellaro «La mia bella patria», in questo caso sulla cittadinanza attiva europea, sotto la direzione artistica di Antonello Faretta, il progetto ha terminato agli inizi di maggio la prima parte del suo viaggio: due settimane di full immersion, sui terrazzi delle Monacelle che affacciano sui Sassi, con critici e cineasti (bella la lezione di Franco Piavoli), antropologi, le performance dei poeti e il girato dei registi, gli incontri col pubblico. Il film compiuto (cinque episodi sulla visione dell’identità) sarà presentato a Matera il 24 agosto. Come tutto questo lavoro collettivo diventerà cinema lo vedremo quindi allora. Intanto, la performance che ha intrigato di più i presenti è stata quella di «Scannaciucce, una lode dell’asino» del poeta Domenico Brancale ripreso dalla regista albanese Blerina Goce. Un viaggio poetico (e politico) in una terra che ha in Rocco Scotellaro uno dei suoi numi tutelari. Una perlustrazione nella crisi del nostro tempo, nel guado in cui ci siamo cacciati. E infatti Brancale, performer di razza, è sceso letteralmente ai piedi dell’asino (uno vero). Abbiamo incontrato il poeta a Matera per una breve intervista.
Intanto qual è il significato, in alcuni paesi del Sud, della parola «scannaciucce»?
È il nome crudele che nel dialetto i contadini diedero alla pianta dell’agave. Sui sentieri argillosi le sue lunghe foglie contornate di spine ferivano con ferocia (scanna-re) l’asino (ciucce) già carico all’inverosimile sulla soma. Quindi una sorta di beffa per l’animale che portava carichi immani. Insomma una corona di spine imposta all’ignorante, all’idiota-poeta il cui idioma si scandisce in ragli, come una voce che dal silenzio si allarga e si sgrana fino allo strazio.
Il significato metaforico dell’agave è chiaro: ai deboli è imposta una crudeltà in più. Per arrivare dove, nella tua cifra stilistica e poetica?
Là dove la parola poetica si dice e si scrive nel tremore di un fallimento, nella luce smarrita di un corpo che muore e di un altro che nasce. Intendere il raglio è riscoprire la propria identità nell’altro, scoprire nel volto umiliato della bestia l’invisibile divino come diceva Rubina Giorgi.
Dunque la parola poetica che si fa phoné, siamo sempre dalle parti di Carmelo Bene?
Ma certo. Il raglio dell’asino è questo niente in cui credere e gettarsi. Non sarò mai al sicuro nella parola, per questo scannaciucce è la parola che taglia i pensieri sull’orlo della lingua. Occorre credere all’asino che vola, fino alla fine. Il corpo della scrittura è vuoto? Ragliaci dentro! Il raglio è una voce della natura, che giace sotto il limo dell’essere umano, espressione di una urgenza irrimandabile, di una volontà di non tacere più dopo aver troppo taciuto.
Dunque l’animale che diventa il contraltare della nostra umanità malata?
Vedi, l’asino è l’occasione, la svolta, lo scarto. Rimettere al centro del nostro sapere la santa ignoranza, farla convivere con tutto ciò che la eccede, il pilatismo e l’identità. Combattere il pilatismo, il lavarsi le mani che sta prendendo tutti ormai in questo nostro tempo di de responsabilizzazione. Noi stessi ogni mattina ci laviamo le mani davanti allo specchio, ci laviamo le mani per lavar via il senso di colpa, per scacciar certi dubbi. Combattere il caso perché è nel caso che tutti si perdono. E abbracciare il destino di ogni nostra azione, di ogni parola sussurrata e taciuta. Recuperare l’analfabetismo.
Quindi niente identità urlate contro le altrui esperienze?
Ma assolutamente! Bisogna rinnegarsi continuamente. Bisogna uscire fuori di sé. Bisognerebbe insomma farla finita col giudizio dell’io. Sono stanco dell’identità, in qualche modo me ne fotto. Se esiste un’identità, questa è sempre in movimento, in farsi e disfarsi. Ma tutto ciò è fuori della narrazione e della poesia. Anzi se vogliamo dirla tutta, scrivere poesie è dialogare con i morti, con ciò che deve ancora avvenire.
Qual è dunque la strada, in conclusione?
Occorre prendere il reale in tutto il corpo prima di portarlo alla voce, prima che sia scrittura. Beati coloro che non sanno né leggere né scrivere perché saranno chiamati analfabeti, diceva José Bergamin. E aggiungeva: non esiste vera poesia che non abbia bisogno di questa lucidità spirituale che può trovarsi soltanto nelle tenebre della nostra ignoranza, nella profondità della nostra ombra; e terminava: l’alfabetismo è il nemico di tutti i linguaggi spirituali, ossia, in definitiva, della poesia.