Percepire il corpo può diventare un’impresa difficile immersi come siamo in questo plancton digitale, ma forse è proprio dimenticandoci di avere un corpo che abbiamo iniziato a pensarlo così tanto. Se corpo è tutto ciò che occupa uno spazio, una porzione di materia che può essere descritta e misurata, come direbbero i fisici, forse persino i filosofi, è nel potere immaginifico dell’invenzione letteraria che cosa un corpo può – essere? fare? – offre terreno a un’estensione simbolica.
NON SI TRATTA SOLO di saper staccare il pene di un marito per portarselo al lavoro nel cestino del pranzo, come si legge all’inizio del primo racconto della raccolta Tempi moderni dell’irlandese Cathy Sweeney (Il Saggiatore, pp. 141, euro 19, traduzione di Claudia Durastanti). O di nascere con il torace annodato da una mutazione genetica rara, come accade alle donne della famiglia di Cassie, protagonista de Il libro di X, primo romanzo dell’americana Sarah Rose Etter (Pidgin, pp. 320, euro 16, traduzione di Stefano Pirone). Ma dello spazio che separa le definizioni dei vocabolari, significati risalenti a sei-settecento anni fa, da tutte le parole trascorse nel frattempo. Quelle usate per odiare, oggi hanno spesso a che fare con il corpo; un corpo sovraesposto, degradato da sguardi nascosti e ideali di plastica. «Scavo tra le vecchie riviste di mia madre in soffitta. Sfoglio le vecchie tendenze, ammiro le donne lisce» dice la Cassie ragazzina, protagonista del romanzo valso a Etter lo Shirley Jackson Award nel 2019.

A dire il vero una storia comune, se non fosse per quel nodo nel torace, e per una cava di carne architettata in «arterie grosse, arterie sottili, tutte connesse e serpeggianti» dove suo padre e suo fratello passano le giornate a scorticare sangue e grasso. Se le diete non fossero fatte di sassi e le pareti non si lavassero con la buccia di limone, la parabola di Cassie non racconterebbe altro che gli ostacoli interiori che ogni donna nel corso della propria evoluzione può trovarsi ad affrontare. Invece, nelle pagine di Etter il corpo è materia fluida, che si sviscera all’esterno di un destino, si fa luogo e impone una presenza dall’interno nel suo muoversi irrequieto tra campagna e metropoli, metropoli e provincia. «C’è un diagramma che mostra il corpo femminile, i muscoli disegnati in belle linee grigie. Oggi, dice l’insegnante, impareremo alcune cose sul sesso. Sophia mi rivolge un’espressione che simula un conato» racconta Cassie, che a scuola è torturata dai compagni per la malformazione che rende il suo corpo anormale.
«Dopo cena taglio le donne dalla pancia piatta dalle riviste di mia madre. Attacco con il nastro adesivo i loro toraci alla parete, dal pavimento al soffitto. Le chiamo ‘le Sophia’. Sono le ragazze che un ragazzo vorrebbe toccare». Etter ci consegna un diario senza date ma dalle tappe obbligate che ha la trama di un classico del primo novecento americano e la voce di un tempo diverso, il nostro, che ha fatto della cattiveria un tritacarne immateriale. La narrazione procede per frammenti e interruzioni, nozioni dispensate in forma di elenco, visioni che rappresentano un’altra versione dei fatti, il potere delle fantasie. «Prima di uscire, indosso il mio falso cuore, che si colloca nel petto davanti al mio cuore regolare» dice Cassie diventata adulta, «una protezione ulteriore».
SE ETTER INVENTA IL CORPO per riscattare un’esistenza dallo sguardo di una madre, in una serie di affondi su medicalizzazione e chirurgia, violenza sessuale e soglie del dolore, Cathy Sweeney si muove su un piano decisamente diverso. La sua scrittura è concettuale, mai tragica; un cacciavite sa come smontare un apparato per scardinare i meccanismi di una relazione. «Prima mi metto io sulla sedia e mio marito mi dà la scossa» dice la protagonista del racconto «La sedia» «e poi, circa una settimana dopo, sono io a gestire le scosse. Ogni coppia ha il suo modo di fare le cose, questo è quello che funziona meglio per noi». Il titolo della raccolta, Tempi moderni, pubblicata per la prima volta nel 2020 dalla rivista irlandese Stinging Fly molto attenta alle nuove voci e diventata negli anni una casa editrice specializzata in racconti, ha il fascino discreto di un orologio a molla. E anche se potrebbe capitare di sentirsi risucchiare da un film di Lanthimos, non apre le porte a una sfilza di racconti alla moda; la varietà di ambientazioni attinge a periodi diversi, alcuni quasi antichi, altri mai esistiti, dove atmosfere molto inglesi e prose dall’andamento fantastico si alternano a capitoli di una sola riga in cui semplicemente «passano cinque anni».

CI SONO DIVERSI QUADRI, in questi racconti, che raffigurano corpi dipinti su tela, statue di bronzo o di marmo dalle sembianze virili. E poi bambole dalla voce programmata, sigarette fumate da signore con i guanti da cucina, mestruazioni blu. Foto erotiche mostrate in sequenza che creano un «film sfarfallante» nello spioncino di una macchinetta da peep show e tergicristalli che fanno «lo stesso suono di un pompino». Ma è quel filo d’ironia che compare in controluce sulla superficie delle cose a renderli infallibili come trappole per topi. Ne «La donna il cui figlio era un uomo molto anziano», per «agire in modo diverso» e non restare a marcire in una provincia isolata e noiosa – «a) per amore del figlio solo per essere trascinata in manicomio un giorno» o «b) abbandonare il figlio per morire anni dopo di alcolismo e solitudine» – una giovane madre si trasferisce in città e lascia il bambino in freezer giorno e notte per fare la scrittrice.
Ne «Il regalo di compleanno», una donna che ne ha abbastanza del sesso coniugale, regala all’uomo che ha sposato una bambola gonfiabile e a forza di pulirla ne diventa amica. In queste pagine il corpo è un ingranaggio inaggirabile che non ha niente a che vedere con le impressioni soggettive, l’anatomia dell’invenzione aderisce totalmente al mondo del racconto, è lo sguardo che si scolla, ed è uno scollamento che funziona. «I miei capelli sono biondi e sottili. Li porto corti, altrimenti mi impicciano. Li volevo tingere, quel mese di luglio, di un colore che puoi leccare». Che si parli di signore con più bocche o di arance che marciscono, nelle storie di Sweeney c’è sempre di sottofondo, la possibilità di una scintilla che deviando dal percorso originale manda all’aria tutti i piani – un rigolo di sangue che all’improvviso cola da un orecchio, il sapore metallico delle ciliegie, qualcosa di complicato da dimenticare, ma senza la necessità che sia davvero grave.
COME SE LA VITA non fosse altro che un disastro che possiamo sopportare, come se la nostra parte più brillante fosse quella che ha imparato a dissociare. «Un giorno ti svegli e ti accorgi che la tua caviglia destra è blu» attacca la protagonista del quintultimo racconto. «Tuo marito sostiene che hai le visioni. Pensi di cambiare vita, invece inizi una relazione con un collega di lavoro. Compri dell’intimo nuovo da Marks&Spencer, ti depili le gambe e ti metti ai piedi lo smalto turchese». È da quella luce naturale sparata sul pennello che imbeve le unghie di un destino fabbricato su misura che capisci come si diventa una donna liscia. E che il blu è tra tutti il colore più subdolo, perché non c’è niente di più insidioso di ciò che non lo è abbastanza da cambiare le cose davvero.