In questi anni, gli studi femministi sulle biotecnologie hanno fornito molte suggestioni etiche e politiche, mettendo in luce i nessi possibili tra un pensiero di genere, le tecnologie riproduttive, i suoi usi e abusi, e la questione dello statuto dell’umano e della vita stessa. Tuttavia, «pochi hanno indagato i meccanismi materiali che iscrivono la biologia in vivo dei corpi umani nei processi del lavoro post fordista sia attraverso la produzione di dati sperimentali che il trasferimento dei tessuti. Forme di lavoro che stanno diventando sempre più centrali per il processo di valorizzazione economica post fordista». Ecco l’apertura di libro che farà parlare di sé, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera (DeriveApprodi, pp. 256, euro 18), ovvero corpi al lavoro dentro le catene globali che forniscono «materiali in vivo» per un’economia fondata sulla vita.

Le autrici, Melinda Cooper e Catherine Waldby, insegnano a Sidney. La prima è già da noi conosciuta grazie alla traduzione di un precedente testo, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale ai tempi del neoliberalismo (Ombre Corte). Va ringraziata la curatrice e traduttrice, Angela Balzano, per aver introdotto entrambi questi lavori nel dibattito italiano, così da consentirci un confronto teorico intenso sulla complessità del neoliberalismo e sulla sua razionalità, sulla materia della produzione attuale, sui meccanismi di cattura del capitale contemporaneo e sulle sue definizioni.

Una teoria messa a rischio

Come abbiamo potuto apprendere a partire da noi stessi, e come abbiamo a nostra volta provato a descrivere, la nostra vita viene lavorata, un processo estrattivo capillare che smargina completamente il concetto di sfruttamento. Più ci accostiamo a esaminare tale processo, più avvertiamo la difficoltà a coglierlo definitivamente, vista, appunto, la sua natura smisurata. Dunque, la teoria del valore-lavoro di Marx, da cui pure Cooper e Waldby muovono, risulta non del tutto adeguata ad afferrare il presente: «il vocabolario tecnico della prima produzione industriale informa il quadro concettuale della teoria del valore, dando luogo alla distinzione tra lavoro vivo e lavoro morto, tra capitale costante e variabile», distinzione che poggia sul presupposto che da un lato esista la composizione tecnico-inanimata del capitale, dall’altro il lavoro vivo del corpo del lavoratore, «concepito come un tutto organico». Ma il processo lavorativo si iscrive anche al livello più molecolare del corpo. Di qui la necessità delle autrici di proporre una nuova categoria, quella di lavoro clinico con cui si intende il processo di estrazione attraverso cui «gli imperativi astratti e contingenti dell’accumulazione vengono messi al lavoro al livello del corpo».

Questo lavoro clinico impegna una manodopera, prodotta e selezionata secondo linee di razza e di classe, nelle tecnologie della riproduzione assistita e nella vendita di tessuti come ovociti e spermatozoi, generando un fiorente mercato, una bioproduzione. Il lavoro clinico (donatori di sangue, sperma, embrioni, organi e altri «tessuti vivi») mantiene formalmente lo statuto della donazione volontaria, sulla base dei principi della bioetica che puntano sulla libertà dalla coercizione e sul consenso informato, rivelandosi in pratica efficaci strumenti per facilitare «forme ataviche di contratto di lavoro e forme discontinue di rimborso».

Madri surrogate in India

Ci avviciniamo, grazie alla categoria di lavoro clinico, alle radici più profonde della teoria del «capitale umano» e a quella figura di «imprenditore di se stesso» «di cui le nuove forme di lavoro clinico rappresentano la punta più avanzata della sperimentazione neolibertista», a partire dalle elaborazioni della scuola di Chicago sin dagli anni Sessanta. Un ampio patrimonio teorico dimostra come i processi di precarizzazione e di esternalizzazione abbiano progressivamente trasformato la manodopera del pianeta in risorsa «usa e getta». Perfino la dissoluzione della famiglia fordista rappresenta l’occasione per incorporare nella logica della razionalità economica relazioni famigliari, sociali, intime. Si tratta perciò di esplicitare la saldatura tra produzione e riproduzione promossa dagli stessi assetti del neoliberismo che tutto trasforma (organi, qualità, esposizione del corpo) in «servizio a contratto». Attraverso le analisi di Cooper e Waldby in contesti come l’India, il lavoro delle madri surrogate indiane non pare dissimile da altre forme di lavoro femminilizzato e informale: «assunte da un’agenzia di intermediazione, possono svolgere il lavoro a casa».

La donna che accetta di diventare una madre surrogata assume, per poco prezzo, «un ruolo economico imprenditoriale», anche se espone a rischi elevati il suo stesso corpo.

In tutto questo, il corpo delle donne è il corpo biopolitico per eccellenza, è il primo oggetto d’investimento, il supporto primario di ogni desiderio mercantile. Il lavoro, dunque, nelle sue forme postmoderne, punta a iscrivere tutta l’interezza del corpo-mente nella logica del profitto. Un bionomio, quello di «corpo-mente», da considerare inscindibile perché l’altro lato della cattura del capitalismo contemporaneo è relativa ad aspetti ancor meno misurabili, e tuttavia dirimenti, come saperi e affettività, che non possono essere disconosciuti benché vadano anch’essi intesi come mai separabili dal corpo che li esprime.
Cooper e Walbdy riconoscono, per esempio, a Tiziana Terranova e a Maurizio Lazzarato «di essere il punto di partenza per comprendere le attuali dinamiche economiche (…) e per mettere a fuoco i modi in cui le potenzialità del corpo sociale e la produttività della biologia umana siano messe a valore». Tuttavia, criticano l’utilizzo del termine «immateriale» impiegato in parte dei loro lavori. Allo scopo di rimarcare i collegamenti con il concetto di lavoro clinico, sarà utile segnalare che le teorie sul capitalismo biocognitivo hanno da parecchio tempo dismesso l’utilizzo della nozione «immateriale» relativamente al «lavoro», pur mantenendola invece quando riferita alla «produzione» (brand, immagine, comunicazione, formazione).

L’originalità di questo libro è fuor di discussione: con rigore teorico e abbondanza di case studies, dalla California all’India, dall’Europa alla Cina, si coglie il campo proprio del mercato globale aperto dalle tecnologie riproduttive, dall’industria farmaceutica, della medicina rigenerativa, fondata sull’«economia della vita».

Resta la necessità di una cornice definitoria relativa i processi di sfruttamento, poiché la crisi della legge del valore non significa la sua scomparsa ma solo la sua estensione, senza fare ricorso al termine post-fordismo che nulla dice di ciò che ha sostituito. Non c’è separazione che tenga tra corpo e mente: la mente lavorizzata spossessa il corpo di desiderio, lo ammala; il corpo alienato perde parola e libertà di pensiero. Ascoltare, allora, le sintomatologie mute dei corpi, «per uscire dalle strettoie di una dualità – maschile/femminile, corpo/mente, individuo/collettivo – che resiste ai mutamenti rapidi della storia con la persistenza delle leggi naturali», scrive Lea Melandri.

Ciò che è in questione, infatti, anche nella definizione sociale di lavoro cognitivo usata in questi anni, è il corpo, la sessualità, la fisicità deperibile, l’inconscio. Ciò che emerge, nella pluralità delle precarietà, è prima di tutto il corpo del lavoratore, della lavoratrice. Melinda Cooper e Catherine Waldby lo ricordano, sottolineando come questo processo «abbia conseguenze particolari quando il lavoro riguarda completamente i processi viventi che ci tengono in vita».

Una sussunzione vitale

Questo libro stimola a chiarire la descrizione di quel paradigma di accumulazione contemporaneo che abbiamo chiamato capitalismo biocognitivo-relazionale: i corpi-mente vengono costretti nelle maglie della bioproduzione e del lavoro cognitivo in rete; il lavoro di riproduzione, sviluppato nella nozione di riproduzione sociale, è archetipo della produzione contemporanea, a partire dalle teorizzazioni del femminismo marxista e materialista; il lavoro autonomo di seconda (o terza) generazione e la femminilizzazione del lavoro rimandano ai meccanismi di precarizzazione connessi alle nuove forme di organizzazione del capitale contemporaneo. La categoria innovativa di lavoro clinico ci aiuta a immettere nuova sostanza nell’analisi del processo di «sussunzione vitale» del capitalismo biocognitivo e finanziarizzato: non solo non c’è più differenza tra corpo e macchina ma neppure tra corpo e materia prima, il corpo stesso è, sempre più precisamente, «materia prima».

Da un punto di vista politico, se esiste un’aporia essa è quella che continua a esistere tra le istanze di una «buona vita» e l’ampiezza della «vita messa al lavoro» dal neoliberalismo. Vanno «ripensati i termini dello scambio», concludono Cooper e Waldby. Ovvero, va riproposto con forza il tema della riappropriazione delle forze produttive.