Gli strati archeologici sepolti dalla base NATO di Napoli, nonostante siano ormai preclusi alla pubblica ricerca, rendono finalmente giustizia alla storia millenaria della Cannabis sativa, restituendole il ruolo di primo piano che le spettava nell’economia italica dell’Età del Bronzo.

NEL 1998, NEL CORSO degli scavi preventivi per la costruzione delle nuove strutture dell’US Naval Hospital presso il territorio di Gricignano d’Aversa, fu scoperta una necropoli, occupata con continuità dal 2500 al 1800 a.C. Al suo interno, prima della rimozione, si era fatto in tempo a recuperare i resti di 217 individui, provenienti soprattutto da singole inumazioni. Preziosi frammenti di paleoantropologia rimasti muti per vent’anni fino alla scorsa estate, quando si è reso evidente un dato fondamentale per la comprensione della comunità di appartenenza: la maggior parte dei suoi abitanti viveva della coltivazione di canapa. Lo dimostra uno studio pubblicato sull’American Journal of Physical Anthropology, la cui principale autrice è Alessandra Sperduti, una bioarcheologa del Museo delle Civiltà di Roma: «Il servizio che offriamo consiste nel prendere in carico materiale scheletrico per operare una riorganizzazione anatomica, realizzando un check degli elementi ossei e dei denti presenti allo scopo di definire le caratteristiche demografiche di un sito».

«Notando inusuali solchi sugli incisivi di due donne, abbiamo capito che non poteva trattarsi di anomalie genetiche», continua la ricercatrice. «Abbiamo invece ipotizzato che fossero stati prodotti da attività extra masticatorie e quindi con buona probabilità legate a pratiche lavorative».

I SOLCHI PROFONDI E ARROTONDATI sono visibili a occhio nudo, per cui l’usura dovuta allo sfregamento di un elemento estraneo sul dente deve essere stata prolungata.

Un possibile modello di riferimento lo offrono confronti etnografici: i denti anteriori sono ancora utilizzati da alcuni gruppi umani come una sorta di terza mano nella preparazione di cordame e nella filatura. «Abbiamo analizzato col microscopio SEM i denti di 168 individui, rintracciando striature parallele in oltre il 60 % delle donne adulte e in un solo uomo», racconta Sperduti. «Il diametro di questi solchi oscillava tra 0,2 e 0,6 millimetri». Potevano essere stati causati solo da un filato più sottile di semplici corde. «Studiare il tartaro, la placca mineralizzata che resta sui denti, ci è sembrata l’idea migliore per indagare in tale direzione», spiega. «Cercavamo delle fibre, ci siamo concentrati sulle due donne con i solchi maggiori e abbiamo rinvenuto frammenti di Cannabis sativa».

NON PROPRIO UNA SORPRESA, perché in una vetrina del Museo delle Civiltà Sperduti indica due pugnali in bronzo provenienti da Gricignano e involti per protezione in un tessuto dello stesso vegetale, le cui fibre corrispondono nel diametro ai solchi sui denti. «Gli incisivi superiori sono quelli coinvolti nell’attività di filatura», chiarisce Sperduti mimando il lavoro di una tessitrice di Gricignano. «Probabilmente la donna passava il filamento di canapa fra l’incisivo e il canino come si fa con un filo interdentale: prima lo umettava, poi lo torceva per legarlo a un altro capo e creare in questo modo un filamento più lungo, forse aiutata da un peso a terra».

Filippo Maria Gambari, direttore del museo, ricorda che nelle comunità preistoriche le cannabacee erano presenti, ma per esclusivo uso tessile. «Le cime delle navi greche erano di canapa», sottolinea. «E il Canavese, in Piemonte, prende il nome dalla fitta produzione di canapa che riforniva il porto di Genova». È da escludere per Gricignano un impiego alternativo. Selezionare delle piante per ottenere l’effetto dell’hashish richiede tempo. «Intorno al 2000 a.C., la coltivazione di canapa era però appena giunta in Campania, in seguito a un raffreddamento del clima», spiega il direttore. «Originaria delle sponde del Mar Nero, la Cannabis si era diffusa velocemente nei Balcani per raggiungere da qui l’Italia, soprattutto quella settentrionale, dove la produzione avrebbe raggiunto il picco in età romana».

SE NON L’HASHISH, A GRICIGNANO potevano tuttavia circolare droghe ben più pesanti. «Probabile che i suoi abitanti conoscessero gli effetti allucinogeni del fungo Amanita muscaria», dice Gambari. «Se ne potevano servire gli sciamani perché a volte l’allucinazione può produrre la visione esterna. La Storia notturna di Carlo Ginsburg racconta poi del particolare rapporto, certamente millenario, tra streghe e rospi, che dopo aver preso il sole secernono sul dorso un essudato chiamato bufotenina. Un acido lisergico naturale alla base di un celeberrimo topos delle fiabe: se baci un rospo, vedi un principe».

Chi infine inseguiva nella droga uno scopo fine a se stesso, altro dall’esigenza di curarsi o dal desiderio di una visione mistica, ricorreva già nell’Età del Bronzo all’oppio. «In diversi siti, per esempio Castello di Annone in provincia di Asti, era diffuso un curioso spillone per fermare gli abiti», conclude il direttore. «La capocchia terminale riproduceva la testa di un fiore. Non uno qualsiasi, ma un papavero raffigurato nel momento della sua maturazione in cui viene raccolto per ricavarne un effetto stupefacente: senza petali, con il bulbo ingrossato e secco. È forse questo il loto dell’Odissea».