Massimo Nunzi, classe 1962, è uno dei maggiori musicisti e jazzisti italiani. Pieno di progetti, idee, iniziative, ha presentato il 23 dicembre scorso all’Auditorium E. Morricone di Roma la sua opera L’ultimo libro della giungla. Nel 2024 sono attesi l’uscita del primo album (Parco della Musica Records) del nuovo sestetto Six Voices for a Voyager e il debutto della sua nuova, effervescente big band alla Nuvola. Ce ne parla.

Partiamo dal sold-out al recente Roma Jazz Festival per la Jazz Campus Orchestra che guidi dal 2019.
Il lavoro fatto convince: la Jazz Campus, della Fondazione Musica per Roma, viene percepita come un’orchestra, non un gruppo di bambini che suonano. Sin dall’inizio li ho considerati musicisti; in tutti/e ho cercato un’identità definita che hanno dovuto solo tirar fuori: per questo la Jazz Campus ha successo. È un’orchestra a tutti gli effetti: rispetto i loro limiti tecnici ma li faccio suonare come professionisti. Mary Lou Williams lo era a 10 anni, Harry Carney a 14. Per quanto mi riguarda, ho la possibilità di donare loro 40 anni di esperienza musicale. L’apice della Jazz Campus è stato nella collaborazione con l’orchestra sinfonica dei ragazzi di Fiesole: hanno realizzato L’ultimo libro della Giungla, opera mia e di Yann Apperry, per il Maggio Musicale Fiorentino nel luglio 2023. In origine era stata realizzata per Radio France nel 2016.

Cosa del jazz può attrarre oggi un giovanissimo, ai tempi di TikTok e del Metaverso?
Le nuove generazioni sono diverse: le capacità sviluppatesi con i device elettronici, usati fin da piccoli, aumentano esponenzialmente le capacità combinatorie e leggere musica risulta semplice rispetto a un videogioco o al Metaverso. Il jazz funziona perché in questo momento – in cui tutti siamo protagonisti e Instagram ci rende unici – offre la possibilità di esprimere la propria identità in un contesto collettivo altamente organizzato a livello strutturale.

Da anni collabori con istituzioni francesi; recente il progetto «Calvinologie» con il poeta Apperry (oltre all’opera «Sentimentales funerailles» e al citato «L’ultimo libro della giungla»). Ce ne parli?
A fine novembre ’23 a Parigi abbiamo iniziato a lavorare a una nuova opera, sempre con Apperry: Ottoline, il veterinario dei mostri. Abbiamo costituito un nuovo gruppo, La Grande Semaine, con me alla tromba, Apperry alla voce e Simon Martineau alla chitarra. Abbiamo sempre lavorato sulle idee e in Francia esistono persone super partes che valutano progetti di pubblica utilità. È un meccanismo efficace e capillare che permette, poi, la distribuzione dei materiali prodotti in tutto il territorio, anche perché in Francia la cultura gode di una sorta di blindatura da qualunque tipo di cambio di direzione politica.

La big band ha per te grande fascino: a 29 anni hai diretto l’orchestra Rai; per varie trasmissioni Rai hai composto e arrangiato musiche. Molte energie hai speso per Trombe Rosse e l’Orchestra Operaia, a struttura cooperativa e con spazio per i giovani. Come nasce questa «passione»?
La suggestione viene dalla radio tv che negli anni Settanta era l’unico luogo di conoscenza per un bambino che viveva nel vuoto culturale. Ascoltavo le trasmissioni di Mazzoletti, Nunzio Rotondo, Carlo Loffredo; in tv vedevo la big band Rai diretta da Ferrio, Canfora, Calvi e sognavo… Da autodidatta quattordicenne cominciai a suonare in una scuola di jazz a Roma con il trombettista Luigi Toth. Imparai a leggere e iniziai a suonare con Gianni Oddi, sax alto dell’Orchestra Rai; poi conobbi Massimo Urbani e divenni professionista. Papà faceva il capocantiere ed era contrario al mio «mestiere». Per rassicurarlo cominciai a lavorare a testa bassa in ogni contesto. A 23 anni potei finalmente comprarmi un pianoforte e quello stesso anno cominciai gli studi privati di composizione. Purtroppo mio padre non ha visto nulla di quello che ho fatto. È il mio più grande rammarico.

Non vorrei dimenticare il Nunzi trombettista…
A 15 anni ho deciso che avrei fatto il musicista a tempo pieno. Il jazz non permetteva guadagni all’epoca, non c’era una situazione concertistica capillare come oggi. Essendo stato sin da subito chiamato come solista, ho fatto una lunga carriera come trombettista per altri. Poi ho cominciato a suonare per me; ora suono con la mia voce, non devo seguire le necessità del mercato. Non ho bisogno di dimostrare niente a nessuno e tutti i progetti in cui suono sono adeguati al mio linguaggio.

Musica per film, teatro, pubblicità… Hai sempre lavorato a tutto campo. Come ti approcci a questi mondi diversi?
Per Gli infedeli Riccardo Scamarcio e Stefano Mordini mi hanno chiamato perché il loro era un tipico film anni Settanta a episodi e volevano una musica stile Trovajoli/Umiliani. Il mio rapporto con la musica applicata è di estrema interazione con regista o autore. Si parla molto, si delinea il percorso emotivo che si vuole affrontare e si ottiene specificamente l’oggetto sonoro richiesto.

Il tuo repertorio ha sempre indagato territori diversi, tra cultura «alta» e di massa, con arrangiamenti di sigle di cartoni animati, telequiz, sceneggiati. Un immaginario sonoro variegato…
Ho sempre pensato che si potesse fare un percorso verso il pubblico utilizzando linguaggi decodificabili con facilità. La mia generazione è cresciuta con una struttura mentale aperta, in anni aperti alla sperimentazione. A 15 anni potevi sentire gli Area dal vivo, incontrare i Soft Machine, Dexter Gordon e Chan Parker… Ho suonato con John Cage però poi guadagnavo suonando in tv per Loretta Goggi. Televisione e radio di quegli anni erano in grado di unire alto e basso, intuivano che senza sperimentazione non sarebbe stato possibile costruire nuovi linguaggi. Ora l’abbattimento di tutto questo porta ai risultati che vediamo. È impossibile paragonare quei tempi con l’oggi in cui ci sono nuovi parametri, quelli che stiamo esplorando ad esempio con l’orchestra Jazz Campus.

Tre incontri che ti hanno cambiato la vita.
Ho incontrato Yann Apperry all’Accademia di Francia Villa Medici; la mia musica è ispirata dalla sensibilità poetica e dall’ironia di questo scrittore franco-americano. Tutte le cose più importanti della mia vita artistica sono state fatte con lui. Siamo due «kindred spirit». Conosco Ada Montellanico da molto tempo, è stata molto importante per la mia vita artistica. Ada con i suoi stimoli mi ha aiutato in un momento di grande crisi in cui avevo avuto un pesante tracollo personale. È una bellissima persona, una grande artista estremamente generosa con tutti quelli che incontra. Tra le persone più importanti della mia vita due grandissimi musicisti, Pete Rugolo e Clare Fisher. Li ho conosciuti a Los Angeles, dove ero per il Sundance Film Festival. Entrambi mi hanno fatto capire che l’umiltà e il fatto di essere consapevoli della nostra finitezza deve essere sempre tenuto presente nel percorso artistico.

Vorrei ci parlassi della nuova band Six Voices for a Voyager, di cui è atteso nel 2024 il primo album.
Il sestetto con Elisabetta Antonini, Fabio Zeppetella, Domenico Sanna, Gabriel Marciano, Giulio Scarpato e Marco Valeri ha realizzato il mio sogno di creare un tipo di jazz che risentisse delle forti influenze letterarie che ho assimilato in questi ultimi anni. Elisabetta è capace di esprimere, attraverso il suo canto, le svariate figure poetiche che vengono evocate dal disco. Sono anche molto felice di aver potuto registrare con Gabriel (sassofonista, ndr) che è uno dei più importanti musicisti del futuro del jazz italiano.

Cosa ci dobbiamo aspettare dalla tua nuova big band che debutterà nel 2024 alla Nuvola?
È un percorso dove incontrerò una coreografa, attraverso l’orchestra e una serie di brani-cardine degli anni Trenta-Quaranta legati a ballo e jazz. Vorrei avvicinare il grande pubblico a scoprire le radici del rapporto fra movimento e musica, danza e suono. Sono concerti in cui tutti potranno essere protagonisti, coinvolti in movimenti coordinati ai brani e che permetteranno anche di scoprire come si fa musica con un’orchestra dal punto di vista tecnico.

LA BIOGRAFIA
Nel 1977 il trombettista quindicenne Massimo Nunzi – nato a Roma da famiglia lontana dalla musica e di origine contadina – decise di fare il musicista a tempo pieno. Da allora è stato solista, compositore, arrangiatore, leader, direttore d’orchestra, divulgatore, inventore di progetti. Radio, televisione, cinema, teatro, pubblicità, opere di carattere letterario, composizioni e arrangiamenti per orchestra, combo e organici vari: queste le coordinate di una produzione vastissima. Di formazione jazzistica, Massimo Nunzi si è sempre interessato alla musica in senso ampio inglobando «alto» e «basso», musica contemporanea e sigle televisive, Dizzy Gillespie e John Cage. Ha collaborato, tra gli altri, con Alberto Corvini, Massimo Urbani, Enrico Pieranunzi, Don Cherry, Lester Bowie e Toshiko Akiyoshi; innumerevoli i suoi organici tra cui Trombe Rosse e Orchestra Operaia.