C’è chi ieri parlava di 213 vittime, chi di oltre 600, chi di 1.300: l’attacco che ha colpito l’area di Ghouta, a Est di Damasco, si è risolto in un terribile massacro, le cui dimensioni non sembrano ancora definite. Ieri all’alba, secondo quando riportato da diversi gruppi di opposizione al regime di Bashar Al-Assad, le forze militari governative avrebbero attaccato Ghouta, a pochi chilometri dalla capitale, con missili contenenti agenti tossici.

Un’accusa durissima, quella mossa dalle opposizioni, che giungeva mentre a Damasco sbarcava il team di ispettori delle Nazioni Unite, entrati nel Paese dopo lunghi negoziati proprio per verificare l’utilizzo o meno di armi chimiche da parte del governo in questi due anni di guerra civile.
Quello che è certo è che di civili, ieri all’alba, ne sono morti a centinaia: foto e video caricati su internet mostrano lunghe file di cadaveri – tra cui donne e bambini – avvolti nei teli bianchi, distesi a terra, fuori dagli ospedali e per strada. Milletrecento, secondo il leader della principale fazione di opposizione, il Consiglio Nazionale Siriano, George Sabra («Non si tratta più di terrorismo, ma di annientamento», ha detto Sabra da Istanbul). Almeno 650, il bilancio della Coalizione Nazionale, federazione dei gruppi di opposizione.

Secondo quanto riportato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, l’attacco è stato sferrato alle prime ore dell’alba nella regione di Ghouta, roccaforte dei ribelli: colpiti in particolare i quartieri di Zamalka, Arbeen e Ein Tarma. Le testimonianze di medici e infermieri sono tragiche: le vittime dell’attacco sono arrivate negli ospedali con pupille dilatate, gambe e braccia fredde, pelle grigiastra e schiuma in bocca, i tipici sintomi tipici di chi ha ispirato gas nervino.

La reazione del regime siriano non si è fatta attendere: Damasco ha da subito negato la responsabilità dell’attacco e l’utilizzo di armi chimiche, girando le accuse alle stesse opposizioni. Secondo fonti vicine al presidente Assad, quella di ieri è una mossa propagandistica delle opposizioni, intenzionate a distrarre l’attenzione dalla missione delle Nazioni Unite. Gli investigatori, giunti nel Paese ieri, visiteranno tre siti contro cui sarebbero state utilizzate armi chimiche, la cosiddetta «linea rossa» tracciata dall’amministrazione Obama.
E ora la comunità internazionale, dall’Unione Europea alla Lega Araba, alla luce del massacro di ieri, chiede che la missione si allarghi anche a Ghouta. Da Bruxelles giunge la richiesta di un’inchiesta immediata, mentre il ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, ha annunciato che di Siria si sarebbe parlato ieri durante il meeting indetto per trattare la crisi egiziana.

E se la reazione occidentale e quella della Lega Araba – da tempo impegnata nel tentativo di far cadere definitivamente il rivale Assad, fornendo miliziani e denaro alle opposizioni – erano prevedibili, atteso era anche il commento russo: in un comunicato del Ministero degli Esteri, Mosca prende le parti del regime, definendo quella di ieri una «provocazione premeditata», messa in moto proprio al momento dell’arrivo degli ispettori Onu.
Da mesi ormai la questione delle armi chimiche pare diventata il nodo centrale di una guerra civile comunque sanguinosa. Diversi sono stati i casi in cui appariva chiaro l’utilizzo di gas nervino, sia da parte del governo che delle opposizioni. Più volte Washington ha messo sul tavolo indizi sul possibile uso di gas contro i civili siriani. Indizi, mai diventate prove, attraverso i quali gli Stati Uniti hanno potuto continuare a non decidere.

Certo è che Obama non intende aprire un nuovo fronte mediorientale. O meglio, non intende procedere con un intervento esterno internazionale, sul modello libico. Ma indirettamente, ormai da tempo, Stati Uniti, Lega Araba e Paesi europei gettano benzina sul fuoco siriano, continuando a fornire alle opposizioni – sottobanco o alla luce del sole – milioni di dollari di finanziamenti, team di addestratori, armi ed equipaggiamento militare «non letale».

Ma per ora sul terreno nulla cambia: Assad resiste e segna punti a proprio favore, come la recente riconquista di Latakia, sulla costa mediterranea. Forse il solo modo per far cadere il regime alawita è il superamento della «linea rossa».