Mentre scriviamo queste righe, poche ore prima dei festeggiamenti ufficiali per l’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, le manifestazioni al confine della Striscia di Gaza infuriano e sono già oltre 50 i palestinesi uccisi dalle truppe israeliane.

Oltre alle decine di palestinesi uccisi, altre centinaia sono rimasti feriti dal fuoco dei soldati che «difendono la sovranità di Israele». E gli ospedali della Striscia di Gaza sono al collasso.

Malgrado tutto il peso retorico e simbolico dello spostamento della sede diplomatica statunitense, è molto più importante capire che siamo di fronte a una tappa ulteriore nei piani del duo Trump-Netanyahu – il primo ministro israeliano e il presidente americano. Siamo di fronte ad una drammatica escalation che può portare a una nuova guerra nella regione. L’ambasciatore americano David Friedman aprirà la cerimonia alla quale parteciperà Steve Mnuchin, ministro del tesoro degli Stati uniti.

David Friedman è un ebreo statunitense di estrema destra che ha appoggiato attivamente organizzazioni impegnate a favore dei coloni israeliani nei territori palestinesi occupati.
Il ministro Mnunchin, già dirigente della potente banca Goldman Sachs fallita nel 2008, è attualmente uno dei servitori più fedeli del presidente statunitense e l’architetto di una politica fiscale che favorisce i più ricchi e impoverisce gli altri.

Il presidente Trump ha deciso di attuare una misura, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, già decisa in passato da diverse amministrazioni statunitensi, le quali però avevano preferito rinviarne l’entrata in vigore temendo conseguenze esplosive.
Adesso è come si si dicesse apertamente ai palestinesi che devono assoggettarsi non solo ai diktat israeliani ma anche a quelli del discutibile «intermediario» statunitense.

Gerusalemme, la città «eternamente unificata», è in realtà profondamente divisa. Il 40% della sua popolazione è palestinese e abita in quartieri che ricordano aree impoverite del Sud del mondo. Centomila palestinesi vivono in un campo di rifugiati nella città; oltre centomila sono obbligati a superare posti di blocco dell’esercito e della polizia per arrivare al lavoro; ottantamila bambini non possono andare a scuola. Tutta l’infrastruttura è fatiscente. Il peggioramento della situazione, giorno per giorno, mira, alla fine, ad allontanare i palestinesi dalla città.

Il fatidico «muro di sicurezza» che dovrebbe separare Israele dai territori occupati passa anche per la città, e l’«unità» retorica non può nascondere questo ostacolo alla vita normale dei palestinesi.
Ma qual è l’effettiva gravità dell’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme? In primo luogo occorre capire che sia Trump che Netanyahu cercano di portarci a passo sostenuto a una possibile guerra contro l’Iran.

L’ossessione fondamentalista, messianica e nazionalista del primo ministro israeliano e i suoi problemi con la giustizia gli offrono un’opportunità coi fiocchi. Benjamin Netanyahu non ha alcuna intenzione di arrivare alla pace fra Israele e Palestina e adesso, con il possibile appoggio dei regimi arabi più reazionari della regione e con un altro alleato nei guai dal punto di vista penale, il presidente statunitense, potrebbe davvero arrivare a una guerra con l’Iran.

In Israele, l’opposizione al premier Netanyahu è praticamente inesistente, se si escludono assai limitati circoli di sinistra.

In queste ore, gli scontri sanguinosi sul confine meridionale sono già costati molte vite palestinesi.
Il portavoce dell’esercito israeliano annuncia al mondo la «verità»: alcuni giovani palestinesi prigionieri dell’esercito hanno «confessato» che Hamas riceve denaro dall’Iran per fomentare i pericolosi disordini, una «minaccia alla sovranità israeliana».

I festeggiamenti all’ambasciata statunitense a Gerusalemme saranno come il sale su una ferita. In quel luogo pronunceranno discorsi menzogneri non solo i governanti israeliani estremisti, ma anche l’ex rappresentante dei coloni ora ambasciatore di Washington, l’ambasciatore dei ricchi nel governo statunitense, e il pastore battista Robert Jeffress, noto per l’appoggio a Trump e per le invettive contro l’islam e gli omosessuali: un rappresentante dell’estremismo evangelico pro-Trump e pro-Israele presente in ampie aree fondamentaliste statunitensi.

Già domenica scorsa, nel discutibile «giorno di Gerusalemme», alla tradizionale Marcia hanno partecipato numerosi militanti dell’estrema destra religiosa; sono risuonati i soliti slogan tipo «morte agli arabi» di chi festeggia l’inesistente «unità» della città di Gerusalemme.

Il frenetico nazionalismofondamentalista, la retorica ipocrita rispetto alla sede diplomatica, non debbono distrarci dal punto più problematico: i signori della guerra ci vogliono trascinare nuovamente in un conflitto. Quanto sangue potrebbe scorrere? Questo non interessa agli interessi imperialisti che si saldano con il messianismo bellico ed espansionista della leadership israeliana.