Una delle tristi rappresentazioni che rimarrà un’icona di questo 2020 sarà la mascherina chirurgica, che, volenti o nolenti, è diventata nostra compagna di vita, scudo per la nostra salute, ma anche simbolo delle nostre fragilità e insicurezze.
Ma se un male è inevitabile è giusto farselo amico. È quello che hanno pensato i Devo. Ve li ricordate? Negli anni Ottanta furono una delle più inconsuete e geniali testimonianze della new wave Usa. Dal loro nome possiamo capire quanto fossero lungimiranti. Devo deriva infatti dalla parola «De-evolution», la band sosteneva già all’epoca l’idea che invece di evolversi, l’umanità stesse iniziando una regressione e che la società americana fosse l’avanguardia di questo processo. A guardare l’America di oggi è impossibile non riconoscere in quella provocazione una profezia. La band, guidata da Mark Mothersbaugh, celebra quest’anno il quarantennale dell’album che li consacrò, Freedom of Choice, il disco uscito nel maggio del 1980 che rese la loro follia mainstream. In occasione dell’anniversario, i Devo hanno lanciato un negozio online di merchandise in versione coronavirus. Un’ampia scelta di DPI (un acronimo che, come Covid, ormai fa parte della nostra quotidianità) tra cui spiccano le mascherine chirurgiche con i loghi della band. Tuttavia, il pezzo più pregiato è la versione con visiera protettiva del loro «energy dome», l’inconfondibile copricapo rosso che è da sempre il loro feticcio e simbolo. La band amava raccontare che impedisse la dispersione di energia prodotta dal cervello e fu modellato pensando al profilo delle antiche piramidi ziggurat con cui i mesopotamici si mettevano in contatto con il loro dio Marduk. «Ai tempi tutti risero – ha detto Gerard Casale, uno dei membri fondatori del gruppo -, ma oggi il nostro “dome” non è più oggetto di scherno. La sua popolarità è un simbolo che la De-evoluzione è realtà!». Ebbene sì, il presente di oggi era forse troppo assurdo anche per entrare in una canzone dei Devo di quaranta anni fa. E lo strampalato «energy dome» è diventato un dispositivo di protezione individuale più facilmente reperibile di tanti altri. O tempora, o mores.

Mascherine rock, ormai un ingrediente del merchandise degli artisti

 

PROFEZIE
Ma chi segue la moda sa bene che il pop, con l’inconsapevole capacità profetica che spesso ha la creatività, aveva già eretto la mascherina a trend. Rihanna si presentò un paio di anni fa al festival Coachella con una mascherina di design tempestata di cristalli, l’anno scorso Miley Cirus per ovviare a una fastidiosa influenza si era fatta ritrarre con una maschera firmata da Louis Vuitton; un’altra pop star, Kesha, ne aveva indossata una firmata Laurel DeWitt su un red carpet per denunciare il silenzio sulla violenza alle donne. Il marchio sud-coreano Blindness aveva risposto con una mascherina da 63 dollari esposta e venduta nel corso di una mostra tenuta al Met di New York e dedicata alla cultura eccentrica del «Camp». E proprio in Corea del Sud, patria ormai della più dinamica scena teen-pop del pianeta, la boy band SHINee ha dato il proprio contributo per rendere l’accessorio un simbolo adolescenziale. A gennaio di quest’anno quando il coronavirus stava iniziando a bussare alle porte dell’occidente, l’eroina pop di oggi, Billie Eilish, si è presentata ai Grammy Awards con naso e bocca coperti, in un look integrale nero-verde firmato Gucci. «La mascherina viso Gucci di Billie Eilish è il trend 2020» intitolava pochi giorni dopo Vogue, non sospettando che mancavano solo alcune settimane a che la moda fosse imposta da un Dpcm (un altro acronimo a cui abbiamo dovuto abituarci). Ritornano in mente anche vecchie immagini di Michael Jackson che dagli anni Novanta compariva in pubblico protetto dalla mascherina. Una di queste, appartenuta agli ultimi anni di vita della star, è stata anche messa all’asta per decine di migliaia di dollari. In queste settimane una ex guardia del corpo del King of Pop ha rivelato alla stampa britannica che il cantante si copriva il volto perché era ossessionato dalla convinzione che un giorno o l’altro un’epidemia avrebbe fatto il giro del mondo.
Le mascherine chirurgiche esistono in realtà da più di un secolo. La loro storia è anche raccontata in un libro, History of Surgical Face Masks, datato 1967 scritto da un certo John L. Spooner e mai tradotto in italiano, ma che forse meriterebbe una ristampa. Introdotte a fine Ottocento in ambiente medico, si diffusero nella popolazione per la prima volta nel 1910 in Cina durante un’epidemia di peste. Nel 1918 furono usate fuori dagli ospedali per prevenire l’influenza spagnola che uccise nel mondo più di 50 milioni di persone. In anni recenti si sono rese necessarie in concomitanza delle epidemie come quella di Sars del 2003 e delle influenze aviaria e suina, diventando molto frequenti negli usi quotidiani dei cittadini di molte caotiche metropoli orientali.
Però se dobbiamo coprirci il volto tanto vale farlo ricordando anche la musica che ascoltiamo. La campagna We got You Covered, lanciata dalla Universal Music, propone sul web un’ampia selezione di protezioni decorate con loghi e grafiche (tutte ufficiali e autorizzate) dei grandi nomi del rock. Gli accessori sono venduti a 15 dollari e i proventi sono completamente destinati a Musicares, un’organizzazione che si è mobilitata per offrire sostegno a musicisti messi in difficoltà dalla crisi causata dall’epidemia. Diverse band come My Chemical Romance, Korn e Megadeth si sono mosse in autonomia, producendo i propri gadget sempre pensando a finalità benefiche.

Tupac Shakur ha trasformato la bandana in un suo tratto iconografico distintivo

 

UN FAZZOLETTO QUADRATO
Nella cultura popolare però la mascherina chirurgica ha un antesignano. È la bandana, quel caratteristico fazzoletto quadrato di cotone che ha attraversato epoche e vissuto da protagonista tante mode successive. Il nome bandana deriva dal sanscrito. Nacque infatti in India e i britannici l’importarono in occidente dove divenne popolare nel diciannovesimo secolo per i suoi disegni (chiamati «paisley») ispirati a motivi della tradizione persiana. Divenne un onnipresente accessorio nell’America dei pionieri e dei lavoratori. A minatori, agricoltori, viaggiatori serviva per proteggersi dal sole o dal vento, ma anche e soprattutto a schermarsi non contro i batteri, ma contro la polvere. Quello che era un fazzoletto o uno strumento tuttofare si trasformò in un simbolo di ribellione grazie alla mitologia western distillata dal cinema. A partire da Tom Mix fino a John Wayne, la bandana era essenziale quanto il cappello e la pistola: copriva il volto dei banditi e divenne affermazione di machismo e di anticonformismo. Si passò poi dai cowboy nelle praterie alle bande di motociclisti sulle Harley Davidson che amavano raffigurasi come i fuorilegge di una nuova epopea del West. Negli anni Settanta la comunità gay di San Francisco la utilizzò come codice di comunicazione segreto. Sempre in California, la bandana arrivava negli anni Ottanta nei ghetti neri diventando, sul volto come attorno alla testa, segno distintivo delle gang urbane. Le due principali famiglie rivali di Los Angeles, i Crips e i Bloods, e i rapper che facevano a loro riferimento, si distinguevano dal colore dei loro fazzoletti.
Oggi viviamo un presente che assomiglia a un futuro immaginato in qualche fantasia distopica: parliamo per acronimi e invece di seguire le previsioni del tempo ci informiamo sugli indici di contagio. Il «trend del 2020» è frutto delle circostanze, ma possiamo sempre illuderci che i nostri volti coperti siano più una scelta libera e il richiamo di una tradizione che non l’argine a un’emergenza di salute pubblica.