Di fronte alle Spiagge e alle Bagnanti di Fausto Pirandello torna in mente quanto ha scritto una volta l’artista francese Louise Bourgeois: «Il contenuto ha a che fare con il corpo umano, il suo aspetto, i suoi cambiamenti, trasformazioni, con ciò di cui ha bisogno, con ciò che vuole e sente – con le sue funzioni.
Quel che percepisce e subisce passivamente, quel che fa.
Quello che sente e quello che lo protegge – il suo habitat.
Tutti questi modi di essere, di percepire e di agire sono espressi da processi che ci sono familiari e riguardano il trattamento dei materiali, colare, fluire, gocciolare, stillare, far presa, indurire, coagularsi, sciogliersi, espandersi, contrarsi».
Queste opere, dove corpi nudi di uomini e di donne sono accostati l’uno all’altro, distesi per terra o in piedi, raccolti in fitti assembramenti, segregati sullo sfondo di cieli blu accesi e di una terra sabbiosa che copre tutto l’orizzonte, terra la cui consistenza e il cui colore di poco si differenziano da quello delle carni umane che vi sono appoggiate sopra, sono immagini che subito si fanno emblema di una precaria, sofferta e comune condizione umana.
Alcuni di questi lavori sono al centro della mostra che le Fabbriche Chiaramontane di Agrigento, in collaborazione con la neonata Associazione Fausto Pirandello, dedicano al pittore (Fausto Pirandello. Il tempo della guerra (1939-1945). Vi sono raccolte sessanta opere, tra dipinti ed opere su carta, che raccontano una stagione della ricerca di questo artista, nato a Roma nel 1899, ma di famiglia siciliana, originaria proprio dell’agrigentino: «Io dunque sono figlio del Caos», scriveva Luigi Pirandello, padre di Fausto, «e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché sono nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xaos».
È tra la fine degli anni Trenta e la prima metà del decennio successivo che Fausto Pirandello abbandona ogni debito che aveva proficuamente tratto negli anni della giovinezza prima dal simbolismo, poi da de Chirico e dal surrealismo, infine dal cubismo e da Cézanne, per giungere, al termine di una lunga rielaborazione di queste ricerche, alla piena definizione del suo stile, che si rivela assolutamente unico nel panorama italiano di allora. Un traguardo che lo allontana definitivamente da molti dei suoi primi compagni di strada, tra cui Giuseppe Capogrossi, Corrado Cagli, Renato Paresce, Mario Tozzi e Mario Mafai.
«Non c’è altra via, non c’è altra salute che questa», gli scriveva il padre Luigi nel 1928. «Se la tua sincerità è pensare in un tuo modo particolare, che riesci a esprimere così singolarmente, nelle tue lettere, ebbene dipingi questi tuoi pensieri, sarai sincero e ti esprimerai: esprimerai qualche cosa. La sorveglianza critica uccide l’arte. La critica d’arte moderna è micidiale. L’avete tutti nel sangue. Bisogna liberarsene».
È emblematico come Fausto riesca a raggiungere questa libertà invocata dal padre solo dopo la scomparsa di quest’ultimo, avvenuta il 10 dicembre 1936. Alla fine degli anni Trenta infatti molto cambia nella sua opera. Le figure perdono la loro monumentalità, gli impasti di colore, da sempre densi nella sua pittura, si fanno più mossi.
L’aspetto teatrale, l’impianto scenico, proprio di larga parte delle opere fino a quel momento, come ad esempio Il remo e la pala (1933), Il bagno (1934) o La scala (1934), quella rappresentazione del destino umano «chiuso in un perimetro precostituito e invalicabile, privo di passione come dell’illusione, ridotto alla recita inutile di un rituale cabalistico» (Guido Giuffrè), si smorza e progressivamente viene meno. Fino a condurre Pirandello figlio, rimasto solo, verso quella drammaticità accesa delle sue più tipiche Spiagge.
A testimoniare questo cambiamento è il quadro Siccità, che Fausto inizia a dipingere poco prima della scomparsa del padre e che riesce a finire solo dopo la sua morte. «La campagna a noi sembra bellissima – spiega Fausto nel 1937 – Ma per i contadini è tutt’altra cosa. Essi non fanno che lamentarsene. Per loro una macchiolina, un segno impercettibile sulle foglie o sui rami, annunziano delle catastrofi irrimediabili. (…). Lo cominciai l’estate scorsa ad Anticoli. Mentre vi lavoravo, mio padre ci si veniva a sedere dietro, e così, invisibile, cominciava a parlarmi: ‘Vedi, tu stai facendo un errore estetico. Quel verde è troppo verde, ecc.’. Ne nascevano delle lunghe discussioni e naturalmente non venni a capo di nulla. Adesso l’ho ripreso. Vorrei raggiungere il senso popolaresco che hanno certe figurine del purgatorio tra le fiamme».
È allora, come scrive D’Amico in catalogo, che «quella stessa realtà quotidiana che sino ad allora egli nascondeva dietro la maschera dei simboli, e atteggiava interrogante in gestualità rituali, prende d’un subito ad incombere, svelata, sulla pittura; ove un’umanità ferita scopertamente confessa il proprio malessere e la propria ansia».
Una condizione esistenziale che di lì a poco investirà tutte le figure che arrivano ad affollare i dipinti e i disegni di Pirandello, rendendoli allo sguardo odierno segni premonitori della tragedia allora imminente della guerra. Sulle tavole (supporto da sempre prediletto, forse perché più adatto a trattenere tanta esuberanza della materia) e sulle carte, lo spazio che prima accoglieva le figure (fatto di interni domestici, stanze spoglie, usci o semplici pareti), colto spesso da impraticabili punti di vista, troppo bassi o troppo alti, si dissolve lentamente. Soprattutto nei disegni, di cui alle Fabbriche Chiaramontane è presentato un ampio nucleo di inediti provenienti dalla collezione del figlio Antonio, i corpi appaiono distesi nel vuoto, in uno spazio privo di orizzonte, sfornito di qualsiasi punto utile di orientamento, senza più nessun elemento di appiglio da cui prendere le mosse per un qualunque tipo di racconto. Un sentimento ancora più disperante di quello dei quadri sembra scaturire da questi fogli, dovuto da un lato alla più succinta concezione di queste opere, dove il numero minore di figure non lascia spazio al pur minimo conforto di un destino largamente condiviso, che spinge gli individui, come gli animali, a stringersi tra loro nei momenti di difficoltà; dall’altro lato, desolante appare la totale mancanza di quella pur piccola porzione di cielo e di mare che sempre si intravede sul fondo dei quadri. Elementi che, pur nella loro scabra presenza, ancorano questi corpi a un brandello di realtà, meno annichilente del vuoto assoluto.
Sempre nelle carte di quegli stessi anni, la triste consapevolezza d’una amara sorte, dovuta alla guerra, sembra travalicare i confini della storia collettiva e insinuarsi in ogni aspetto della vita privata, finendo col riflettersi nei timidi e inermi sguardi dei figli, che Pirandello ritrae a più riprese tra il 1942 e il 1943, anni in cui si rifugia con la famiglia ad Anticoli Corrado. Come i corpi nudi che si agitano nel vuoto, anche le figure di Antonio e di Pierluigi, appaiono sole, incapaci di sottrarsi allo sguardo del padre, di nascondersi, anche solo di indietreggiare timidamente di un passo per sentirsi protetti dalla forte figura materna, come avveniva nel grande quadro de La famiglia (1935).
«Davanti agli occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema filosofico», aveva scritto Luigi Pirandello, facendo riferimento all’impossibilità del pensiero e di qualsiasi costruzione logica di afferrare il lato irrazionale e istintuale dell’uomo. Non diversamente il figlio Fausto scriverà a proposito della sua pittura, molti anni dopo, come tutto fatalmente cambia «quando t’avvedi a un punto di aver preso coscienza d’artista nel naufragare delle verità date», quando ci si rende conto che non è la realtà l’oggetto dell’indagine creativa ma «il nostro medesimo soggetto operante e determinato. (…). Luogo dove poi, infine, una forma può restare invariabile e differenziarsi; un colore prestarsi alla reminiscenza come all’invenzione, indifferentemente; un rosso equivalere a un turchino, il bianco al nero; una curva ad un piano, un punto a una linea. Luogo di perfetta indifferenza per ciò che sia forma o contenuto, di dove si muove l’interesse vero dell’arte».