S’intitola precisamente Tarda primavera. Un nuovo sguardo sul cinema del disgelo (prima parte: alba) la rassegna più innovativa e costruita (come fa capire già l’articolazione del titolo) vista quest’anno a Il Cinema Ritrovato di Bologna. Ma va subito detto che, se il festival si è dimostrato vincente (al di là di qualche limite nella realizzazione della rassegna McCarey) è perché nel suo programma le rassegne si collegavano con intrecci fertili, in particolare tra quella russa su cui qui ci soffermeremo, l’iraniana e appunto McCarey. La grandezza di quest’ultimo è stata in qualche modo un faro: per esempio il fuori campo totale dei campi di concentramento nel cinema sovietico (che solo l’opera dei maggiori scrittori testimonierà, mentre ad esempio nel cinema jugoslavo c’è stato lo straordinario, tuttora misconosciuto coraggio di Miroslav Antic nell’affrontare il tema) viene messa in luce dalla capacità di McCarey di fare un cinema che nell’abbracciare l’essere (il to be di The Bells of St Mary’s ci sembra il fulcro di questo grande artista-filosofo del Novecento) coglieva l’interrogazione della negatività dello sterminio non solo nel 1942 con Once Upon a Honeymoon (che supera le finzioni di Chaplin e Lubitsch sul nazismo) ma, come si è scoperto a Bologna, già nel 1930 con Part Time Wife che fa vedere un atroce canile nel cuore della città adibito a camera a gas.

La rassegna russa s’inseriva bene nella linea che in questi anni Peter von Bagh ha realizzato, per esempio con le splendide riproposte dei polacchi Aleksander Ford e Andrzej Munk, che insieme a Wanda Jakubowska sono i cineasti più rivelatori di quel paese. Ma si potrebbe auspicare un allargamento a come il cinema cecoslovacco, bulgaro, romeno e tedesco-orientale hanno saputo trattare la Shoah sia prima che dopo il processo Eichmann: progetto che da anni propone Federico Rossin e che merita una realizzazione.

La rassegna russa, inoltre, ha coronato le più approfondite e rivelatrici indagini sul cinema sovietico, dal pionieristico lavoro storiografico di Jay Leyda all’acribia di Bernard Eisenschitz e alla passione di Gianni Buttafava, del quale ricordiamo l’epocale retrospettiva sul cinema sovietico degli anni ’60 a un remoto Torino Film Festival (si chiamava credo ancora Cinema Giovani, ed era giovane davvero). In questi anni, ogniqualvolta a Bologna o a Pordenone si proponevano film russi e sovietici, era oro che colava, al punto che da ex-americanocentrici saremmo ormai propensi a vedere nel cinema sovietico il momento più ricco di tutta la storia del cinema. A pensare che grandi cineasti anche di epoche successive (Larisa Sepitko, Ilija Averbakh, Gleb Panfilov, Marlen Chuciev e tanti altri) attendono ancora un’integrale scoperta, ci convince che le rivelazioni sono destinate a moltiplicarsi, e, nonostante i limiti politici di Krusciov e Gorbaciov, dobbiamo essere loro grati di aver cominciato ad aprire i cellari in cui si trovavano film prodotti in epoca staliniana e brezneviana ai quali era stato concesso di nascere ma non di apparire su schermo.

Gli eredi di tutte queste ricerche sono diventati oggi Olaf Möller, che da anni realizza alla cineteca di Vienna e altrove splendide rassegne, e lo studioso russo Peter Bagrov, che collabora anche a Pordenone e la cui nomina a direttore del Gosfilmofond fa capire che Putin magari elimina dei giornalisti ma sceglie per meriti professionali veri gli operatori culturali, come peraltro già faceva Mussolini (meglio che poi Andreotti e i suoi successori fino ad oggi). Möller e Bagrov sono gli ideatori e curatori della rassegna russa a Bologna, che il prossimo anno dovrebbe trattare i cineasti del disgelo riconosciuti come tali in epoca kruscioviana.

La bella idea dei curatori è che quel disgelo aveva un’alba nel periodo tra l’ultimissimo Stalin, la fallita ascesa di Beria e il primo Krusciov. E, a differenza degli Alov-Naumov, Chukhraj e del rinato Kalatozov, che divennero biglietti da visita della destalinizzazione ai festival internazionali, i cineasti dell’alba sono stati allora rimossi anche perché i loro interni vedono spesso campeggiare il ritratto di Stalin (e qui ci colleghiamo ai film iraniani, dove i ritratti di Reza Pahlevi sulle pareti e sulle banconote hanno ulteriormente contribuito alla disgrazia di questi film in epoca khomeinista: mentre oggi va nettamente scoperto che, nonostante la rivoluzione islamica abbia fatto bene al cinema iraniano – verrebbe da dire meglio che al paese – né Kiarostami né Makhmalbaf né altri raggiungono la grandezza di Farrokhzad e Shahid Saless).

Quando alla citata rassegna torinese scoprimmo il fulgore dei grandi cineasti sovietici anni ’60, il cosiddetto cinema del disgelo ci sembrò quasi una maschera inadeguata. Ma sicuramente oggi merita di essere visto con maggiore sensibilità, anche se non raggiunge i vertici dei film “scongelati”. Alcuni vertici sono invece presenti in questo prologo dell’alba. Vi partecipano i due cineasti del passato classico più degni di rivalutazione, Vsevolod Pudovkin e Fridrich Ermler, e con essi firmano film, in cui i curatori hanno colto talvolta sottilissime (ma giuste) prese di distanza dall’ideologia dominante, anche Pascenko, Rappaport, Hejfic, Svejcer e Vengerov (che a seguire il certamente sensibile Chuciev meritano una riscoperta integrale), Judin (già coregista di un Barnet), Egorov, Ejsymont, Ozerov, Rostockij, Rjazanov… Non sempre gli entusiami dei curatori ci convincono: per esempio uno dei film più attesi, Lurdza magdany, diretto da Abuladze e Ccheidze, ci ha alquanto deluso, seppur interessante: è la storia di un asino (e, per chi non lo sapesse, Olaf alleva e ama gli asini come gli esseri più importanti del creato, e ciò acuisce la nostra simpatia nei suoi confronti) ma il suo ritorno in vita ci sembra agli antipodi di quello del cane in McCarey. Perché? Perché l’asino della finzione appare chiaramente interpretato da due asini reali, uno vivo e uno morto, e per noi più baziniani di Möller la cosa è alquanto grave. Oltretutto l’asino morto, nella maledetta finzione, è preso a calci reali, e alcune inquadrature successive, del suo “cadavere” (non si sa se vero o recitato) in un bel totale al tramonto, fanno pensare al noto effetto-Kapò segnalato da Rivette in cui la composizione di un’inquadratura prevale sulle flagranze reali. Questo film che sembra non capire cosa tratta ci evidenzia forse quanto l’eredità staliniana ha fatto di peggiore al cinema sovietico: non solo si sono fisicamente eliminati nella realtà cineasti, scrittori e politici pericolosi, ma nelle immagini dei film si è imposta la dittatura non del proletariato ma dell’immagine sull’essere. La stessa immagine di Stalin era più importante della realtà, in ciò egli è stato equamente comunista. Ma a tutto il popolo sovietico si è imposta un’immagine del reale. I film di questo primo disgelo sono sottili fuoriuscite dal dominio dell’immagine. Pudovkin, che sulle stratificazioni dell’immagine aveva costruito i suoi capolavori, convinto che il comunismo potesse infine far vincere l’inconscio del reale (in questo desiderio egli non è inferiore a Buñuel), affronta nel suo finale Il ritorno di Vasilij Bortnikov l’inevitabile incertezza di una non avvenuta vittoria.