Visioni

«Más distinguidas», tredici assoli per una collezione di memorie

«Más distinguidas», tredici assoli per una collezione di memorieLa Ribot in una scena di «Más distinguidas» – Andrea Avezzù

Biennale Danza Leone d’oro, La Ribot ha chiuso a Venezia il festival, l’ultimo spettacolo prima del nuovo stop ai teatri

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 29 ottobre 2020

La Ribot non si diverte più, veniva da pensare l’altra sera percorrendo la riva degli Schiavoni deserta, a Venezia, dopo l’ultimo spettacolo della Biennale danza. Sarà forse per quell’ultima immagine che ci consegnava quest’opera al nero, i corpi degli interpreti ridotti a una massa quasi informe sotto lo strato spesso di vernice rossa che aveva lentamente coperto i loro coloratissimi abiti. O l’ombra della chiusura delle sale teatrali appena preannunciata, che rendeva ultimo lo spettacolo anche in un altro senso. E sembra allora un fortunato prodigio che il festival abbia potuto concludersi come previsto, nel nome di Maria José Ribot, più nota semplicemente come La Ribot, madrilena di nascita ma da tempo stabilitasi a Ginevra (ha ottenuto anche la cittadinanza svizzera), autrice e performer di creazioni che sfuggono a qualsiasi classificazione.

Qui insignita del Leone d’oro e in scena con un dittico, summa di una «carriera» più che trentennale che da tempo ha trovato la forma più congeniale nei suoi brevi «pezzi distinti».

DOVEVA essere Panoramix a inaugurare il festival, la colossale creazione con cui nel 2003 La Ribot ha raccolto in oltre tre ore di spettacolo le «piezas distinguidas» realizzate nell’arco dei precedenti dieci anni. Poi la situazione ha sconsigliato di mettere in scena un lavoro che presuppone l’inclusione degli spettatori col rischio di prolungati contatti ravvicinati. La scelta è così caduta su una sola sua parte, Más distinguidas, tredici brevi assoli messi insieme nel 1997 e presentati qui come uno spettacolo da sala, con il pubblico distanziato in platea e non a contatto con l’artista.

Il palco bianco che ci si trova di fronte è disseminato di oggetti non tutti immediatamente distinguibili, tanti quanti sono i pezzi interpretati. Maneggiati per un breve momento e poi buttati via con una sorta di gioioso sprezzo, che si tratti di una seggiola usata anche come unico vestito o di un pollo di gomma. Eccola distesa di spalle nella posa della Venere allo specchio di Velázquez che sta alla National Gallery di Londra. E infatti tiene davanti a sé uno specchio rotondo che fa rotolare avanti e indietro lungo un binario, esponendo a quello sguardo riflesso anche la nudità non in vista del suo corpo. Ma di una visione fugace si tratta, che non consente allo sguardo di concentrarsi sul suo oggetto.

Il gioco con il voyeurismo dello spettatore è esplicito e anzi costituisce l’oggetto stesso del lavoro dell’artista ma condotto sempre con una apprezzabile leggerezza, senza il moralismo che accompagna la provocazione.

ECCOLA per esempio fotografare con una Polaroid le parti che si dicono intime e poi attaccarsi le stampe lì sopra (il pezzo si intitola Narcisa), prima di avanzare e arrestarsi a braccia sollevate in una lunga auto-esposizione. Oppure censurare ironicamente la visione delle medesime parti del corpo con le due bande nere di una specie di grande pala a due forche, tenuta ferma davanti a lei da un aiutante, mentre lei intanto si esibisce in pose statuarie. O ancora mostrarsi con un cartello al collo su cui sta scritto «vendesi», vestirsi di un corto abito di lamé che la copre solo davanti, chiedere al pubblico silenzio per un minuto di riflessione, un minuto di contemplazione, un minuto di meditazione…

Another distinguée, proposto per la prima volta nel 2016, è invece la quinta delle «collezioni» dell’artista spagnola. Un lavoro ancora recente, quasi vent’anni lo separano dall’altro. Di cui costituisce quasi il negativo. La distanza si sente, forse è un mutato clima culturale che si percepisce già nello spazio che ospita l’azione. Uno spazio oscuro, un cubo nero immerso in una uniforme penombra appena rotta a tratti da un fascio di pallide luci che si concentra nella mutevole zona dove l’azione si sposta. Al centro incombe una massa scura, una sorta di grosso misterioso meteorite piovuto lì chissà come, attorno a cui il sviluppa il percorso anulare che accoglie insieme spettatori e interpreti.

NON È SOLA La Ribot. altri due performer agiscono insieme a lei, Thami Manekehla e Juan Loriente, l’indimenticabile protagonista di gran parte delle disturbanti creazioni di Rodrigo Garcia, quasi un alter ego scenico dell’artefice da After sun e Jardineria umana a quello straordinario Golgota picnic che nessuno dei coraggiosi direttori dei teatri stabili nazionali grandi e piccoli ebbe voglia di ospitare. Il corpo un po’ appesantito dagli anni, ma che importa, la sua sola presenza è un concentrato di memoria. E in qualche modo si capisce che la memoria ha qualcosa a che fare con il lavoro in cui sono impegnati. Che è composto da otto «pezzi distinti», anche se nella percezione dello spettatore prevale il sentimento di un fluire continuo.

ALL’INIZIO dunque, quando l’oscurità è ancora quasi completa, una sorta di lotta in cui a turno gli interpreti si fanno inquietanti carnefici mascherati per tagliare e strapparsi a vicenda brandelli di una pelle fatta di tessuto leggero. Il gesto di tagliare percorre parecchi momenti di Another distinguée, insieme al ripercorrere sui corpi con un pennarello la traccia di quei tagli che ne è quasi il correlativo. Prima è lei a sezionare per il lungo i lenzuoli bianchi che coprono i corpi dei suoi compagni distesi a terra; poi sono loro a squarciare le gambe dei calzoni di lei, mentre se ne sta rovesciata con le gambe divaricate.

La Ribot sembra negare l’ironia e il senso del gioco che hanno sempre contraddistinto il suo lavoro, lo dice già la rinuncia dell’artista a mettere al centro il proprio corpo. Anche la durata dell’azione si è fatta più lunga e ossessiva, i gesti ripetitivi. Fino a quel finale rosso sangue di cui già si è detto.

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