Quella di Maryse Condé, scrittrice scomparsa all’età di novant’anni, è una tra le voci più belle della letteratura d’espressione francese. In una trentina di libri, ha raccontato l’Africa, le conseguenze dello schiavismo, l’inestinguibile quête identitaria e la portata delle discriminazioni, del loro fardello, di quando intersecate si accomodano a strutturare le esistenze di intere generazioni di donne e di uomini.

AFROANTILLANA, nata in Guadalupa l’11 febbraio 1934, discendente da antenati bambara, Maryse Condé lasciò il Dipartimento d’oltremare e si trasferì nella Métropole. Nel 1953 partì alla volta di Parigi, per studiare Letteratura inglese alla Sorbona allontanandosi dall’Europa per l’Africa – Guinea, Ghana, Senegal – fino all’inizio degli anni Settanta e poi ancora ripartire alla volta degli Stati uniti fino agli anni 2000, dove si dividerà tra i soggiorni sulla sua isola natale e l’attività d’insegnamento a New York.
Fu lei infatti a dirigere il Dipartimento di studi francofoni alla Columbia University, fino al 2002. Attivista per la memoria e contro il colonialismo, è stata la prima presidente del Comité pour la mémoire de l’esclavage (2004 -2009), l’attuale Fondation pour la mémoire de l’esclavage (Fme).
La sua opera comprende romanzi, opere teatrali e diversi saggi teorici sui temi della negritudine, la creolità e l’antillanità – che le hanno valso riconoscimenti come il Prix Marguerite Yourcenar nel 1999 e il Premio Puterbaugh per il corpus delle sue opere nel 1993, prima autrice a riceverlo. Commandeur des arts et des lettres de la France nel 2001, è stata insignita della Grand-Croix de l’ordre national du mérite nel 2020 e nel 2018 del Premio Nobel alternativo.

DENOMINATORE COMUNE dei suoi scritti è il valore del sentimento di identità del popolo delle Antille dopo la decolonizzazione. Tramite Aimé Césaire, Maryse Condé prende coscienza della sua condizione di colonizzata e capisce che ogni ricerca identitaria debutta con la comprensione del passato coloniale e schiavista. Il passato è una presenza che abita le personagge e i personaggi di Condé, caricandosi di una devastante ambivalenza – per cui si cerca costantemente di liberarsene e insieme di conservarlo. Questa costante, che si mescola alla complessità delle questioni legate all’apparenza territoriale, è una delle principali chiavi per ripensare la nozione stessa di conflitto – anche in seno alla lingua.
Maryse Condé sceglie di scrivere in francese e non in creolo, una lingua che le ricorda il peso del suo passato, dal quale cerca costantemente di fuggire, ma anche di ritornare. «Mi piace ripetere che non scrivo né in francese né in creolo. Scrivo in Maryse Condé», diceva. Questo senso di «disappartenenza» linguistica è inseparabile da quello di appartenenza e di posizione sociale: per la sua famiglia d’origine, borghesia della Guadalupa, la lingua francese costituiva il segno di un posizionamento sociale superiore rispetto a quello rappresentato dal creolo, per cui i genitori scelsero di parlare ai figli solo in francese.
Lingua, cultura e identità sono tre nozioni strettamente interconnesse, soprattutto per Condé, che a partire dalla situazione di diglossia nelle Antille, dice di essersi sempre sentita rifiutata a causa dell’uso ora di una, ora dell’altra lingua.

ALCUNE FRA LE OPERE di Maryse Condé sono state tradotte in italiano, tra le quali si ricordano Vita perfida (e/o), l’autobiografico La vita senza fard (La Tartaruga), e il meraviglioso Io, Tituba strega nera di Salem (Giunti). Tituba, figlia di una schiava violentata da un marinaio inglese a bordo di una nave negriera, nasce e cresce alle Barbados ed è iniziata alle pratiche sciamaniche da Man Yaya, anziana guaritrice e fine conoscitrice di erbe e piante medicinali.
Il matrimonio con John l’Indiano porterà Tituba a Boston e poi al villaggio di Salem al servizio del pastore Parris – futuro motore della nota carneficina di donne.
Tituba, come molte delle protagoniste delle storie di Condé, è abitata da un acceso spirito di rivolta. Seppur in uno slancio plastico, alimentato dalla ricerca senza sosta d’indipendenza, come Tituba anche le altre sue personagge raramente raggiungono la completa liberazione – a significare una lucida consapevolezza del reale. Da una parte esse sono intrappolate nelle traversie del percorso di liberazione, dall’altra rinchiuse negli stereotipi dell’eccezionalità e soprattutto dalle salde morse che si stringono sulle gerarchie di razza, classe e di genere.