Due uomini, non privi di somiglianze tra loro, sono all’origine della non ancora del tutto superata sottovalutazione che incombe da sempre, ovunque ma in Italia più che altrove, su Mary Godwin, figlia del filosofo William Godwin e della pioniera del femminismo Mary Wollstonecraf: uno, reale, è il marito, il poeta romantico Percy Shelley, l’altro, partorito dalla fantasia di Mary, è l’altrettanto romantico scienziato Victor Frankenstein. Il personaggio più noto, creato dalla scrittrice inglese, quando aveva appena 19 anni, conosciuto da tutti soprattutto grazie alle infinite trasposizioni sullo schermo, tra le quali solo quella di Kenneth Branagh rende giustizia allo spessore del romanzo, ha finito, in tandem con l’altisonante matrimonio, per cancellare o quasi tutta la produzione successiva di una delle più moderne e complesse autrici inglesi del XIX secolo.

IL BICENTENARIO della nascita (30 agosto 1797) ha cambiato qualcosa anche da noi. Una nuova biografia della scrittrice, per opera della poetessa inglese e studiosa di Shelley Fiona Sampson, uscita nel 2017, è stata tradotta anche in italiano da Utet: La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley (pp. 320, euro 22, traduzione di Eleonora Gallitelli). È stato finalmente pubblicato da Edizioni della Sera, per la prima volta in traduzione italiana, l’ultimo grande romanzo dell’autrice, Il segreto di Falkner (pp. 529, euro 19.50), tradotto, curato e introdotto dalla giovane e brillante Elena Tregnaghi, con una postfazione di Elisabetta Marino che non è un orpello ma si rivela invece utilissima per inquadrare il libro nell’opera complessiva e nella biografia della scrittrice. Peccato che per il bicentenario non sia tornata in libreria la biografia, a suo modo definitiva, di Mary Shelley firmata dalla scrittrice Muriel Spark, tradotta in italiano negli anni ’80 ma oggi introvabile.
La scrittrice considerava Falkner il suo libro migliore e conclusivo. Infatti lo pubblicò nel 1837 e nei 14 anni successivi, prima di morire a 54 anni nel 1851, non scrisse più narrativa. I fili che collegano quest’ultimo romanzo con quello famosissimo d’esordio, pur se non sempre espliciti, sono moltissimi, a partire dal nome della protagonista, Elizabeth.

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IN FRANKENSTEIN Mary aveva nascosto dietro il velo gotico e «fantascientifico» temi più laceranti: la responsabilità nel dare e togliere la vita e quella del prendersene cura, la colpa, riflessi della situazione della stessa giovanissima autrice. Dopo vent’anni tumultosi e tragici, Mary torna sugli stessi temi. Falkner, personaggio al quale hanno prestato tratti sia il padre della scrittrice che l’amico Lord Byron, che con la sorellastra di Mary aveva avuto un figlio, ha adottato Elizabeth ed è a tutti gli effetti più di un padre. Il conflitto tra lui e il ragazzo di cui Elizabeth è innamorata, Gerard, rinvia a quello reale tra Godwin e Shelley, prima che la scrittrice, allora diciassettenne, fuggisse con lui e con la sorellastra Claire per girare l’Europa senza un soldo. Il senso di colpa di Falkner per aver provocato la morte della donna amata riecheggia a sua volta quelli della stessa Mary, non solo per la morte di parto della madre ma anche per il suicidio di Harriet Grove, la moglie che Shelley aveva lasciato per lei, e della sorellastra Fanny Inlay, che Mary Wollstonecraft aveva avuto da una relazione extramatrimonale.
Come Victor Frankenstein né Falkner né Gerard Neville sono capaci di riportare ordine e serenità nella tempesta emotiva che minaccia di distruggerli. Ma a differenza di Elizabeth Lavenza, fidanzata e poi moglie sfortunata di Frankenstein, che non era in grado di salvare lo scienziato, questa nuova Elizabeth lo è.

È LEI A RISOLVERE la situazione, potenzialmente non meno tragica di quella del romanzo più famoso, e a ricostituire intorno ai due maschi, ai due uomini della sua vita, il padre e il fidanzato, un’armonia certamente convenzionale ma reale. Lo fa mettendo in campo la dote che secondo la stessa autrice è la vera chiave del romanzo: la fedeltà, intesa come dote complessiva, fedeltà agli amati senza doverne scegliere uno, fedeltà a se stessa, fedeltà alla propria idea di felicità, tanto solida da aver ragione delle difficoltà e delle fragilità dei maschi.

MARY SHELLEY, come i suoi genitori, era stata una radicale, nelle idee e nei comportamenti, nelle scelte e nello stile di vita. I passi citati da Elisabetta Marino nella postfazione, pieni di disprezzo e delusione per gli attivisti politici del suo tempo, dimostrano che la Mary adulta era cambiata. Non era impermeabile ai valori della nascente età vittoriana e probabilmente, dopo un’esistenza tanto anticonvenzionale e travagliata, aveva bisogno di un maggior ordine. Ma senza abdicare a se stessa.
Come le vere eroine vittoriane, Elizabeth intervenire sul mondo che la circonda, guidando, indirizzando, ricomponendo. La sua radicalità non era affatto scomparsa. Si era solo affinata.