Come ricorderà chi ha letto il Don Chisciotte, nel sesto capitolo della prima parte il curato e il barbiere procedono allo spoglio, piuttosto sommario, della biblioteca che sembra essere la causa principale della follia chisciottesca, per riporne alcuni al sicuro e mandare al rogo la maggioranza dei libri dell’anziano gentiluomo di campagna don Alonso, rincasato dopo la disastrosa prima sortita. Poiché la governante procede con entusiasmo a una prima defenestrazione dei volumi, capita che avendone presi troppi, «uno cadde ai piedi del barbiere; il quale allora volle vedere che cosa era, e vide che si diceva Storia del famoso cavaliere Tirante il Bianco.

– Che il cielo m’assista! – gridò il curato. – C’è anche Tirante il Bianco! Qua, barbiere, qua, ché faccio conto di aver trovato un tesoro d’allegria e una miniera di divertimento. Qui c’è Don Chirieleison di Montalbano, valoroso cavaliere, e suo fratello Tommaso di Montalbano, e il cavaliere Fonseca, e il duello che il bravo Tirante ebbe con l’alano e le facezie della vedova Riposata, e la signora Imperatrice innamorata d’Ippolito suo scudiero. Davvero, caro barbiere, quanto a stile questo libro è il migliore del mondo; qui i cavalieri mangiano, dormono, muoiono nel loro letto, e prima di morire fanno testamento e molte altre cose che non si trovano negli altri libri di questo genere. Tuttavia il suo autore, per tutte le stravaganze che ci mise senza bisogno, meritava che lo mandassero in galera per tutto il resto della sua vita. Portatelo a casa e leggetelo e vedrete se non è vero quel che vi ho detto.»
Si può supporre che Cervantes condividesse almeno in parte il giudizio del curato sullo straordinario romanzo quattrocentesco del valenzano Joanot Martorell, Tirant lo blanch, pubblicato postumo nel 1490; in particolare per alcune affinità anticipatrici delle scelte sperimentate nel Chisciotte, come ebbe a notare Dámaso Alonso: il curato, come si è letto, apprezza soprattutto la maggiore verosimiglianza che distingue il romanzo di Martorell dagli altri del suo genere, vale a dire i romanzi di cavalleria, e in ciò, come sappiamo, condivide il biasimo di Cervantes per i romanzi cavallereschi ancora in voga nella sua epoca.

L’interesse principale per la trama delle avventure probabilmente non corrisponde, invece, alle intenzioni di Cervantes, né crediamo che condividesse del tutto il forte ripudio delle stravaganze dello scrittore valenzano, perché sono proprio queste a conferire un’impronta molto personale, per certi versi si direbbe quasi moderna, a questo testo anomalo nel panorama della letteratura tardomedievale.
Sicuramente Cervantes avrà anche apprezzato nel Tirant l’intimo nesso tra biografia e romanzo, che rivediamo nel Chisciotte, come pure la pluralità di voci dei molti personaggi che consentono la variazione delle prospettive, variazione coadiuvata anche dall’alternanza di più voci narranti. Incuriosiscono alcune somiglianze, come il fatto che Martorell affermi di aver tratto il Tirant da un originale inglese, così come Cervantes si diverte a inventare un originale arabo del suo capolavoro.

Il giudizio del curato (e implicitamente quello di Cervantes) farebbe pensare a un libro di grande e duraturo successo, ipotesi che potrebbe essere rafforzata anche dal discreto numero di traduzioni, fra le quali quella italiana del 1531 a cura di Lelio Manfredi (ristampata due volte); ma ci si ingannerebbe, perché la fortuna del Tirant fu piuttosto ristretta e episodica (l’accantonamento della lingua catalana durato in Spagna per vari secoli ha di certo avuto un suo peso), e a ben vedere è stato il Novecento a rivalutarlo pienamente quale capolavoro; soprattutto a partire dalla edizione curata da Martín de Riquer nel 1947, accompagnata da illuminanti valutazioni storiografiche e critiche. Traduzioni recenti in varie lingue occidentali (l’edizione americana ha avuto un inaspettato riscontro favorevole da parte del pubblico) e perfino in cinese hanno ormai riconosciuto al romanzo di Martorell lo spazio che gli spetta nel canone letterario.

Testimone d’eccezione di questo riconoscimento tardivo è Mario Vargas Llosa, che al romanzo di Martorell ha dedicato un libro, vari saggi e interventi a voce, in particolare in occasione del secentesimo anniversario dello scrittore valenzano nel 2010, definendolo «un romanzo smodato, inconmensurabile, cui tutte le definizioni possibili di ciò che un romanzo è si addicono, ma nessuna basta, il Tirant lo Blanch è qualcosa di più».
Vale la pena citare l’aneddoto della scoperta del Tirant fatta da Vargas Llosa, ricordata come «una delle esperienze più grandi che io abbia avuto come lettore». Fu a Lima, negli anni cinquanta, quando un professore di letteratura «liquidò con frasi sbrigative e sdegnose i romanzi di cavalleria, come letteratura caotica, volgare, a tratti perfino oscena». Il giovane studente Vargas Llosa si sentì pungolato dalla curiosità e spinto dallo spirito di contraddizione si recò alla biblioteca, dove fu travolto dalle lettura del Tirant nell’edizione di Riquer. «Quella prima lettura – racconta – mi commosse profondamente, non solo perché mi intrattenne, mi fece fantasticare, godere, soffrire, divertire con le avventure di Tirant, mi aiutò anche a scoprire lo scrittore che io volevo essere». Cioè, spiega Vargas Llosa, «Mi rivelò la ragione profonda d’essere del romanzo».

Vargas Llosa caratterizza il testo di Martorell come un romanzo ambizioso, ricco di sottigliezze formali, di ironia e di umorismo, con una notevole ampiezza di prospettive, compresa quella geografica, poiché mezza Europa e una buona parte del Mediterraneo sono lo scenario dell’erranza e delle vicende vissute dal protagonista, il quale si sente a proprio agio sia in Inghilterra che in Grecia, in Bretagna come in Spagna. Perciò Vargas Llosa ha definito il Tirant un «romanzo senza frontiere», non solo in senso geografico, perché Tirant, fatta eccezione per la religione, non riconosce frontiere tra gli uomini, se non le caratteristiche che separano secondo un’etica cavalleresca l’onore dal disonore, la bellezza dalla bruttezza, il coraggio dalla vigliaccheria.
Letteratura perfino oscena diceva il professore di letteratura di Vargas Llosa, con ciò ribadendo gli strali lanciati dai pulpiti dei predicatori del Cinquecento contro i romanzi di cavalleria, tra l’altro un genere amato dal pubblico femminile. Va detto tuttavia che anche in questo campo il Tirant emerge per l’eccesso di fronte alla sensualità tutto sommato moderata dei compagni di genere. Fa parte del realismo del romanzo, che arriva a momenti di grande illusionismo letterario, la fisicità del godimento sessuale, rappresentato dalla scrittura di Martorell senza remore e senza ripensamenti.

Come osserva Paolo Cherchi nella sua utilissima introduzione all’edizione italiana da lui curata, Tirant il Bianco (Einaudi, Millenni, pp. CIV-1096, e90,00) di cui ho apprezzato tra l’altro il sommario che costituisce una guida nel labirinto del Tirant), in un romanzo che sfugge alle regole e agli inquadramenti la consapevolezza innovatrice di Martorell si manifesta soprattutto nella distanza ironica che mantiene nei confronti dei materiali tradizionali inclusi nel suo romanzo sperimentale, sintomo della non comune autonomia critica dello scrittore.
Tirant il Bianco mostra infatti un’ampiezza di vedute che fa pensare all’ambizione di scrivere un’opera-mondo, o un romanzo totale, arricchito da prospettive sempre mutevoli, che spaziano agilmente tra il reale e il fantastico, tra il tono comico e quello sentimentale, in un conglomerato di fitti riferimenti enciclopedici ai temi e agli stereotipi dell’epoca, temperati questi da un permanente umorismo scettico. Non ci sorprende perciò che nella sua dinamica narrativa composita e molteplice, il Tirant consenta, come ogni buon classico, letture molto diverse.