Federica Carruba Toscano in «Penelope», foto di Guido Mencari

In un corridoio c’è una ragazza spigliata e sensuale, stanca di aspettare un uomo che non arriverà. Da questo non-luogo fisico e metaforico, la ragazza di nome Penelope osserva il mondo dei maschi, cercando ristoro dal caldo e dal fumo della guerra che imperversa fuori. In sottofondo, tra i suoni generati da ventilatori microfonati a comporre una partitura, il rumore del mare in risacca evoca «un’estate lunghissima» a cui la nostra (anti) eroina vuole mettere fine. Con Penelope, che ha debuttato lo scorso fine settimana a Romaeuropa Festival, prosegue il processo di riscrittura di figure femminili «senza voce» di Martina Badiluzzi e della sua affiatata crew di giovani talenti della scena contemporanea, da Federica Carruba Toscano attrice protagonista, a Fabrizio Cicero che firma l’allestimento di luci e scene. Classe 1988, alle spalle anni in scena da attrice con diverse compagnie e progetti, Badiluzzi si divide tra recitazione, scrittura e regia.

«Penelope» è il secondo lavoro di una trilogia iniziata con «The Making of Anastasia»: come si inserisce in questo percorso?

Da circa quattro anni con i miei compagni – non c’è una compagnia ma un nucleo fisso – stiamo affondando le mani nelle biografie. Dapprima si trattava di materiale di riflessione, poi è diventato un fil rouge della nostra ricerca. Da quando ero piccola, il genere biografico ha sempre avuto una fascinazione su di me. Ricordo che mia nonna collezionava una collana di biografie di personaggi storici che usciva in edicola. Erano tutti maschi: Napoleone, Roosevelt. L’unica donna era la Regina Elisabetta che attirava la mia attenzione con le sue gorgiere e costumi shakespeariani. Mi piace pensare che sia stata una sorta di iniziazione teatrale. Tutti i lavori di questi anni sono partiti da un macro interrogativo: come sarebbe la storia se non fosse scritta sempre dagli uomini?

Come hai sviluppato «Penelope»?

L’epica è il primo genere letterario che studiamo a scuola. Eppure, quando immaginavi di giocare all’Odissea, sicuramente non facevi Penelope. Rileggendola, ci siamo accorti che Omero non è impietoso come molte antologie e libri di testo. Si tratta di un personaggio complesso. Alcune letture contemporanee, come quella di Margaret Atwood, hanno fatto da detonatore di riflessioni incentrate sull’immagine di una donna sola che aspetta un uomo che non torna. C’è una parte di storia non scritta, parallela: ci siamo infilati in questo vuoto. Per me la scrittura è dialogo, subito ho detto a Federica: capiamolo insieme, scriviamolo insieme. Per quanto la forma del monologo possa sembrare spaventosa, avevamo bisogno di mettere Penelope in una sorte di vuoto siderale, proprio perché non ha un interlocutore. La prima domanda è: a chi sto parlando, a quest’uomo che non c’è? Penelope decide di stare in corridoio, l’unico posto che non le ricorda qualcosa. Un luogo di impermanenza, dove nessuno si ferma. Man mano che parla, (ri)scrive la sua storia: facendolo, ne prende possesso. Dai nomi, agli oggetti, a cosa le succede, conosce se stessa: la sua odissea è un viaggio di riconciliazione con i suoi desideri.

Questo processo di recupero della propria identità attraverso la scrittura dove ha condotto la storia?

Improvvisando, scrivendo “in piedi”, come spesso facciamo, ci siamo accorti che potevamo scrivere i personaggi e le avventure di Ulisse come se emergessero dall’inconscio di lei. Polifemo diventa suo padre, Circe è una sorta di compare, la donna che vendica i torti che lei ha subito in adolescenza. L’episodio delle sirene è una trasfigurazione sensuale che Penelope fa del suo corpo, immaginando il momento in cui si ricongiungerà con Ulisse. Questi episodi la portano al presente: Penelope deve accettare la sua solitudine, il fatto che quest’uomo non tornerà, e così andare avanti.

Nel tuo percorso hai attraversato la scena prima da attrice e solo dopo da regista. Questo influenza il tuo modo di lavorare con attrici e attori?

Il fatto di essere stata per tanto tempo “dall’altra parte” fa scattare in me sempre quell’istinto di mettermi a recitare. Prendo il copione, provo delle cose, devo capire, metterci corpo e mani. Ciò mi mette in un dialogo molto diretto con gli attori che dirigo. Nel 2016 feci un laboratorio con Daria Deflorian, all’epoca lavorava su Gli anni di Annie Erneaux. Si è trattato di un passaggio decisivo che ha radicalmente cambiato il mio modo di concepire la sala prove e il teatro, in maniera non autoritaria: venivo da esperienze abbastanza traumatiche. Osservare come Daria ascolta, accoglie, si fa permeare dall’ambiente e poi, una volta raccolto tutto, trasforma il lavoro, è stato importantissimo. Quando circa due anni fa mi ha chiamato per lavorare con lei e Antonio in Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, è stata la realizzazione di un sogno. Un altro momento importante è stato la Biennale con Antonio Latella. Non era tenuto a farlo, ma ha seguito tutti i giorni delle nostre prove, con una generosità e una cura senza pari. Con delicatezza, in silenzio, provava a indicarci la strada. Il tempo trascorso insieme è stato preziosissimo.

Come vedi il teatro italiano contemporaneo?

Onestamente, molto male. Fino ad ora i nostri lavori sono stati prodotti da realtà come la Corte Ospitale, la Biennale, il CSS di Udine dove a dicembre faremo la primissima residenza per la terza parte della trilogia. Geograficamente, sotto Rubiera non abbiamo trovato altre realtà oltre a Romaeuropa Festival. Trovo che a Roma e a Napoli ci siano artisti straordinari e un fermento enorme ma mancano le strutture.