Dopo 15 anni di attività condivisi con Dimitri de Perrot, Martin Zimmermann ha ideato il lavoro solista Hallo, che ha debuttato lo scorso novembre ed è in programma stasera al teatro Mercadante per il Napoli teatro festiva Italia. La scena è occupata da strutture basculanti, oggetti che si animano, scatoloni di legno che diventano casette sotto cui ripararsi, specchi rotanti, vetrine di negozi che finiscono per richiudersi sul protagonista. Zimmermann reagisce all’azione intorno a lui entrando, uscendo, scalando e subendo le bizzarrie dell’ambiente intorno: in un racconto fatto esclusivamente col corpo, la voce entra in campo solo per ripete al pubblico «Hallo?».

«L’essere umano – racconta Zimmermann – ha bisogno di avere qualcuno di fronte con cui comunicare così il Martin sulla scena cerca di dialogare con gli oggetti per non sentirsi perso. La drammaturgia dello spettacolo nasce dal lavoro fatto con Sabine Geistlich, che è una psicoanalista. Un paio di volte a settimana ho frequentato il suo studio, trovare le parole è molto difficile per chi è abituato a esprimersi con il corpo». Ed è il corpo a cui si torna quando si assiste alle peripezie per scampare all’architettura rettangolare della vetrina che si schiaccia sul protagonista, che finisce in una sedia non finita, che poi resta preda di strani specchi e buche animate sul pavimento fino a incontrare il proprio doppio, un manichino, che però non riconosce come altro se stesso: «Il mondo è un luogo assurdo – prosegue – dove si intrecciano magia e incomprensione. Nessuno sa perché Martin si siede su una sedia non finita ma del resto anche adesso, mentre parlo, siamo tutti seduti su sedie scomodissime eppure nessuno lo dice. Per vivere ci adattiamo a situazioni difficili. Esagero la gravità di quello che accade per trasformarlo in uno spettacolo tragicomico».

Al centro della scena campeggia la vetrina che si anima, tre ingegneri hanno lavorato alla costruzione della struttura mobile: «Per me rappresenta la scuola, il luogo di lavoro, la società. In passato ho fatto il vetrinista, ho sempre trovano assurdo il modo in cui sistemiamo gli oggetti, poi finiamo dall’altra parte del vetro e il solo vederli ci provoca il desiderio di acquistarli, fino a mettere in discussione la nostra stessa identità. Siamo spinti dall’apparenza e dal desiderio di riconoscimento». Le strutture si scompongono e ricompongono riproducendo immagini alla Mondrian, tagli di Fontana e visioni surreali alla Magritte. Zimmerman dialoga con le scene, con il pubblico e con i suoni che attraversano la narrazione: «C’è la musica e c’è la diffusione dei rumori che produco con le suole della scarpe, con il mio corpo, con i versi che accompagnano i gesti. La musica è stata ideata da Colin Vallon, un musicista che si muove tra jazz e sperimentazione. Quando lavoriamo insieme lascio che le note dal suo piano colpiscano il mio corpo. Avrei voluto farlo anche in scena ma non sarebbe stato più uno spettacolo solista».

Zimmermann è stato spesso definito «un clown dal gelido umorismo», la definizione funziona se torniamo agli attori degli anni ’30: «Il termine clown – conclude – ha assunto un significato distorto grazie all’immagine diffusa dalla televisione. Cerco di riportare l’arte del circo a teatro, la figura del clown dell’epoca del cinema muto, una silhouette che con i suoi gesti dice già tutto. Privo di voce, ha in sé anche un lato gelido». Il Martin in scena spende gli ultimi minuti rivolto al pubblico improvvisando uno spettacolo di mimo che strappa le ultime risate. Finalmente la platea risponde al suo «Hallo?».