Studente di filosofia ventiduenne, trasferitosi nella primavera del 1919 a Friburgo dall’università di Monaco, Karl Löwith inizia a seguire i corsi di Edmund Husserl al quale lo avevano indirizzato i suoi professori monacensi. Husserl «era succeduto ad Heinrich Rickert nel 1916, diventando il punto di riferimento filosofico non solo dell’università di Friburgo ma di tutta la filosofia tedesca». All’epoca con Husserl collaborava Martin Heidegger, «ancora sconosciuto al di fuori di Friburgo che, scrive Löwith, esercitava su di noi un fascino più intenso (è poi diventato il mio vero maestro, e a lui debbo il mio sviluppo spirituale)». Così Löwith, riandando a quegli anni, nelle pagine di La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, stilate a Sendai nel 1940, nell’esilio giapponese.

Si tratta di pagine rimaste inedite, occasionate da un concorso bandito dall’università di Harvard inteso a raccogliere testimonianze sulla Germania hitleriana, che furono pubblicate postume nel 1986 dalla moglie di Löwith, Ada. Reinhart Koselleck, che di Löwith è stato allievo nei primi anni Cinquanta ad Heidelberg, nota che «le tappe biografiche sono contrassegnate per lo più da persone che Löwith incontrò, nelle quali si riconobbe o con le quali dovette scontrarsi». E acutamente aggiunge: Löwith «è un maestro del ritratto rapido, psicologico e fisionomico, condito di aneddoti, di dialoghi che fissano in modo indelebile una situazione, e di laconici commenti di una concisione ineguagliabile. Löwith scrive in uno stile tacitiano».

Vorrei segnalare il ritratto che ne La mia vita in Germania Löwith delinea di Martin Heidegger. Come è noto Löwith dedica (a partire dal 1942) fondamentali studi all’opera di Heidegger e pubblica nel 1953 Heidegger pensatore in un tempo di carenza (tradotto presso Einaudi col titolo di Saggi su Heidegger). Qui, nell’autobiografia postuma, nel paragrafo La personalità di Heidegger, fin all’aspetto di Heidegger è conferita tale una vividezza che l’autore di Sein und Zeit quasi ci balza innanzi come presente agli occhi. Mi limito a trascrivere alcuni brani. Intanto il suo modo di vestire: «Portava una sorta di giacca da contadino della Foresta Nera con ampi risvolti e un colletto mezzo militare, e per giunta i pantaloni alla zuava, il tutto di una stoffa marrone scuro».

Löwith confessa di aver speso molti anni nell’inutile sforzo di stabilire con Heidegger un rapporto umano. Ci dice come Heidegger non riuscisse «mai a fissare qualcuno direttamente negli occhi e a lungo». E precisa che «l’espressione naturale del suo volto era questa: fronte aggrottata, guance cadenti e occhi abbassati che solo di tanto in tanto si sollevano per pochi secondi per accertarsi della situazione. Se uno lo costringeva a parlare guardando direttamente negli occhi, la sua espressione si faceva ermetica e insicura, perché era incapace di rapporti schietti con gli altri. La sua espressione naturale era sempre di diffidenza circospetta, da contadino furbo». Si intende che il misterioso fascino che Heidegger esercitava e che gli valse tra gli studenti il soprannome di «piccolo mago», emanava dalla sua straordinaria capacità di «avvincere l’ascoltatore con l’intensità enigmatica delle sue parole», come rimarca Löwith.

L’attrattiva delle parole distillate in un prestigio che istituisce imprevedute aperture al pensiero e la seduzione delle parole arricchite d’inaudite risonanze di senso attinte da scaturigini dimenticate o nascoste. «Un piccolo grande uomo misterioso, sapiente incantatore, capace di far sparire dinanzi agli astanti quel che aveva appena mostrato». «La sua tecnica espositiva – prosegue Löwith – consisteva nel costruire un edificio concettuale che poi lui stesso demoliva per porre l’ascoltatore ansioso di fronte ad un enigma e lasciarlo sospeso nel vuoto». Se alla parola Heidegger conferisce una sua specifica densità filosofica, è dall’assegnazione del suo posto nel costrutto teoretico che essa riceve la sua energia cognitiva. «Nelle sue lezioni parlava senza gesticolare e senza effetti retorici. L’unico espediente retorico era un’accorta sobrietà e freddezza espositiva, e la calcolata tensione che conferiva alla costruzione rigorosa delle sue tesi».