Il Mattatoio ospita una foresta africana, con alberi dai tronchi nodosi, che affondano nella sabbia mentre i loro rami si piegano sotto il peso di coloratissime uova e buste di rifiuti. Nelle vasche della Pelanda affiorano interi «villaggi» abitati da feticci sincretici, uomini e donne che sembrano essere in viaggio su barche improvvisate e tutti insieme  guardano, dignitosamente impettiti, verso mondi nuovi.

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Fuori, su piazza Orazio Giustiniani, c’è Big Jumps, opera di poster art con cui il belga-camerunense Pascale Marthine Tayou dà il benvenuto ai visitatori invitandoli al «salto dentro l’immaginazione». Il primo di quei pindarici voli che auspica, l’ha fatto lui stesso quando ha deciso di declinare il suo nome al femminile, aggiungendo una «e» per mescolare i confini e rendere scivolosa ogni gabbia identitaria.
«Il mio lavoro – spiega Marthine Tayou – è un omaggio al soggetto contemporaneo, alle sue perenni incertezze. Gli alberi, elementi imprescindibili, quasi banali, di un paesaggio sono i nostri ritratti: fonti di vita, ’alberi genealogici’ da cui tutti proveniamo. Io, che ho avuto un padre macellaio, che mangio carne per sentire i flussi dell’energia scorrere in me, considero anche questo luogo parte dell’installazione e mi auguro che ognuno possa creare un suo spartito. C’è un tesoro nascosto da rintracciare, mi sento il rappresentante di ciò che è ancora sconosciuto».
È così che Tayou interpreta, non senza sfoggiare la sua consueta ironia, il tema di Romaeuropa festival, Landscapes, che prelude a una sinfonia di paesaggi intrecciati che si dipanano fra teatro, danza, arte e video.
Da oggi, con il suo originale Love Garden dove si consumano antichi riti magici di appartenenza alla terra e si riflette sul futuro del pianeta, Pascale Marthine Tayou sarà il protagonista della sezione Exhibit del Ref19, voluta da Monique Veaute. Non è solo in questa immersione ambientale: insieme a lui c’è anche il fiammingo Hans Op de Beeck, giunto a Roma alla ricerca di «paesaggi mentali dove far perdere gli spettatori, spazi aperti in cui tutto può accadere», dice. Lo ritroviamo in veste di artista visivo con Staging Silence 3, terzo e ultimo capitolo di una serie di film d’autore in cui mani femminili e maschili cambiano scenografie e inventano panorami selvaggi, urbani, acquatici, desertici in un susseguirsi di quadri «disegnati» in un gelido e terso bianco e nero. Il tempo è scardinato, il respiro è metafisico (con le musiche di Scanner).
Ma Op de Beeck è anche uomo di teatro e il festival ospita (oggi e domani) la sua regia The Valley (an apocalypse) che narra i nostri piccoli disastri quotidiani. È un’opera di teatro musicale che si avvale – oltre che delle immagini – della «colonna sonora» eseguita dal quartetto di sax Blindman diretto da Eric Sleichim