Non ricordo la data precisa, ma incancellabile è la traccia di un concerto a Salisburgo di Claudio Abbado, e Martha Argerich al pianoforte, al Grosses Festspielhaus, con i Berliner, per un’interpretazione travolgente del Concerto in sol maggiore di Ravel: venivano entrambi da una malattia e sembrava che questa avesse tolto loro i freni moderatori della ragione. Poche volte ho sentito così evidente, nel concerto raveliano, l’evocazione del jazz, e così forte da parte degli interpreti, direttore, pianista, orchestra, il piacere di abbandonarvisi. Ma la mia era un’impressione superficiale, suggerita dalla novità e dal coraggio della sfida interpretativa: i freni della ragione funzionavano, eccome, l’irruenza dell’emozione era dominata, controllata dall’analisi razionale come pura materia della forma musicale, da non nascondere e tuttavia da dominare. Alla fine del concerto, il pubblico in delirio, Claudio Abbado porge la mano a Martha Argerich, che afferrandola, fa una smorfia, come a dirgli: «È andata, o no?» Abbado le sorride, stringe forte la mano, la alza verso il pubblico, che si scatena in applausi furibondi.

TRA RATIO E EMOZIONE
Non lo racconto per il piacere dell’aneddoto, ma perché in questo ricordo si mette a fuoco, per me, come Martha Argerich intende la musica: un’avventura il cui esito non è garantito dalla conoscenza, dall’esercizio, dal controllo tecnico, che sono solo la base di partenza. Dal momento in cui si comincia a suonare, la realtà è un buco, la sfida contempla infinite possibilità: conoscenza, esercizio, perizia tecnica non difendono dall’imprevisto e possono funzionare solo se messe al servizio di un furore interpretativo imponderabile, che è insieme emotivo e intellettuale. Emotivo perché si accetta la sfida di buttarsi a corpo morto nel dar vita una musica che si crede posseduta, conosciuta, ma che diventa nuova, quasi sconosciuta non appena si posano le dita sulla tastiera, non appena si muove in aria la bacchetta; e intellettuale perché il buttarsi nell’abisso non è un impulso imprevisto, ignoto, ma l’esito della volontà, del calcolo di chi quell’abisso lo ha provato infinite volte e dunque lo conosce, sa controllare il vortice della caduta.
Feroci opposizioni dividono, da sempre, chi sostiene il primato della ragione e chi quello dell’istinto, dell’emozione, come se fossero campi contrapposti e non il ventaglio della complessa psicologia della ricezione estetica. Martha Argerich proviene da un altro mondo: la Buenos Aires della diaspora ebraica, l’Argentina delle grandi irrequietezze che si riversano nella lingua della poesia: «ti allontani dai nomi / che filano il silenzio delle cose» – scrive la grande poetessa argentina Alejandra Pizarnik – «Io canto./ Non è invocazione./ Solo nomi che ritornano», «Qualcuno misura singhiozzando/ l’estensione dell’alba./ Qualcuno pugnala il cuscino / in cerca del suo impossibile/ luogo di riposo».
Due incisioni di Martha Argerich chiariscono meglio di altre la prospettiva da cui guardare alle sue interpretazioni: nella beethoveniana Sonata a Kreutzer, eseguita insieme al violino di Gidon Kremer (disco della Deutsche Grammophon che comprende anche l’op. 96) colpisce non già l’irruenza, ma il fatto che l’irruenza disegni un percorso via via capace di dispiegare le idee musicali con la chiarezza di un’analisi musicologica, come se nessun altro sviluppo fosse possibile se non quello.

CON HARNONCOURT
Che l’ardore, la furia nascano non già da chissà quale empito emotivo, bensì dal calcolo, dalla misurazione precisa delle idee è quanto di più beethoveniano si possa immaginare. In questo senso, le variazioni del tempo centrale sono un miracolo di tenerezza cantabile e di equilibrio sonoro tra violino e pianoforte. Il miracolo si fa estasi nell’op. 96: la varietà del tocco, la fluidità del fraseggio, la secchezza degli accordi, quando necessario, fanno di questa interpretazione un punto di riferimento: non che vada imitata, ma capita sì.
L’altra incisione è del Concerto in la minore per pianoforte e orchestra di Schumann, abbinato al Concerto in re minore per violino: uno Schumann maturo e uno tardo, già sul punto di sprofondare nel delirio. Di nuovo, Martha Argerich è in compagnia del violinista lettone Gidon Kremer, sia pure in due pagine diverse, separate. Due interpretazioni indimenticabili, con la Chamber Orchestra of Europe diretta da Nikolaus Harnoncourt, che – da bravo filologo – non ha mai preteso di restituire il passato così com’era, dichiarandone anzi l’impossibilità. Si ascolti l’attacco del concerto in la minore: un accordo secco dell’orchestra, l’entrata decisa del pianoforte, e poi l’orchestra che entra sommessa. Di tanta discrezione il pianoforte subisce il fascino, sembra assorbirne lo stimolo.
Il fraseggiare è nervoso, ma estremamente varia, in orchestra e sulla tastiera, la tavolozza delle dinamiche. La grande sintonia interpretativa tra Argerich e Harnoncourt è la stessa che egli avrebbe poi stabilito con Kremer: la si coglie ascoltando, per esempio, il Langsam del Concerto per violino. Anche qui flessibilità di fraseggio e varietà dinamica rendono perpetuo il movimento delle frasi. La memoria del più giovane, e pianistico, Schumann, si fa struggimento, senso della perdita.
Quanto influiscono i natali di Martha Argerich sulla sua sensibilità nel cogliere i passaggi, gli interstizi, ciò che nella partitura non è scritto ma esiste? Quanto resta impresso, sulla memoria di una musica cominciata chi sa quando, l’essere figlia di un paese lontano che si riappropria di una cultura restando altra; quanto conta tutto ciò nel periscopio dell’intelligenza e dell’emozione, dell’emozione che esprime l’intelligenza e dell’intelligenza che la interpreta?

DOMANI IL RECITAL
A Ravello domani sera Martha Argerich interpreterà il terzo Concerto per pianoforte di Prokofiev, un’altra pagina del Novecento, che insieme al Concerto di Ravel, ama suonare spesso. L’altro Concerto del Novecento che ha riproposto più volte è il terzo di Bartók: un trio della modernità che guarda con nostalgia al tempo trascorso. Martha Argerich ha appena compiuto ottant’anni, e del tempo trascorso nulla sembra ferirla: intatta, e anzi sempre nuova è la sua volontà di sfida, lo sguardo nell’abisso. E il coraggio di sostenerlo, come quando aveva sedici anni.