Lo scrittore Marko Vešovic, nato nel 1945 a Pape in Montenegro, è morto a Sarajevo per un male incurabile. È stato un docente di Letteratura jugoslava, un giornalista, un fine poeta e, nella memoria della gente di Sarajevo, una delle anime della resistenza durante l’aggressione dei nazionalisti serbi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Le cittadine e i cittadini della capitale bosniaca ne aspettavano con grande curiosità gli articoli che uscivano su Oslobodenje (Liberazione), il principale quotidiano della città fondato nel 1943 e che non cessò mai le pubblicazioni, nemmeno nei momenti peggiori.

VEŠOVIC È VISSUTO a Sarajevo per la maggior parte della sua vita, non abbandonandola durante l’assedio, quando conobbe giornalisti italiani come Federico Bugno, scomparso prematuramente nel 2003, di cui divenne amico e sodale. Insieme a Izet Sarajlic e ad Abdulah Sidran ha costituito una terna di grandi poeti e intellettuali capaci di interpretare l’anima profonda di una città e di un popolo, creando eredi come Ferida Durakovic (classe 1957) e Senadin Musabegovic (1970).
Dei tre, era il più disincantato fino a sfiorare un radicale e caloroso scetticismo, in versi prosastici ma sempre letterariamente sostenuti. La sua più importante raccolta di versi è Poljska Konjica – La cavalleria polacca, 2002, contenente versi scritti tra il 1995 e il 1998. Celebre, in prosa, il suo Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo (edizione italiana Sperling&Kupfer, 1996, in originale con il titolo Smrt je majstor iz Srbije, 1994). È stato consulente per il meraviglioso film di Gian Vittorio Baldi Il Temporale-Nevrijeme (2002).
Durante i primi anni Duemila, ha collaborato con la Casa della poesia di Baronissi (Salerno) aprendo numerose edizioni degli Incontri internazionali di poesia di Sarajevo, svoltisi dal 2002 al 2011, con brevi e divertentissimi discorsi.
Nei suoi versi, la riflessione sugli orrori della guerra si fa acuto sarcasmo, con dei tratti quasi brechtiani: «Chi aveva i soldi, scappò, vabbeh. La guerra / la combattano i pezzenti. Lo capisco al cento per cento / (…) Quelli però che si godono la vita / con la bottiglia infilata nel secchiello d’argento pieno di ghiaccio, / non sono tanto matti da volersi immischiare nella guerra – / che è il mestiere dei pezzenti. Loro che da tutto possono succhiare / almeno una goccia di piacere, loro sono / giustamente sordi alle favole di sacrificio. Si sacrifichi quello / a cui la vita vale solamente per perderla…» (da I nababbi e i pezzenti, traduzione di Sinan Gudževic e Raffaella Marzano). Però, ha scritto giustamente Azra Nuhefendic in un articolo del 2008 (www.balcanicaucaso.org /aree/Bosnia-Erzegovina/O-Marko-o-Radovan-43049) quando egli non accettò un premio letterario, assegnato precedentemente al leader nazionalistico Radovan Karadžic, «nel rifiuto di Vešovic c’è molto più di una consueta protesta civile contro qualcuno che, dei diritti umani e civili, non ha alcuna considerazione. ‘È inaccettabile il silenzio che vi è in Montenegro su quello che è successo durante la guerra in Bosnia Erzegovina… Rifiuto di far parte di questa vergogna montenegrina’, ha spiegato Vešovic».
C’è invece, in lui, la sensazione sporca di un tradimento, quello di un umanesimo novecentesco che non ebbe remore nel convertirsi, in pochi anni, nel più feroce estremismo nazionalistico. Numerosi poeti e artisti conosciuti si lasciarono incantare dalle voci più squallide e fecero dell’altro, amico e collega fino al giorno prima, il nemico da spazzare via.

COSÌ, CONTINUA Nuhefendic, «dalla prima sensazione di incredulità provata all’inizio della guerra (‘ma è vero che sta succedendo proprio a noi?!’), Vešovic si è risvegliato per comprendere di essere stato tradito e attaccato, non solo dai propri connazionali, ma anche dagli amici più stretti come Radovan Karadžic, nonché da poeti-amici come Rajko Petrov Nogo, Branko Culjak e altri. ‘Il mio migliore amico mi ha fatto bere il mio sangue come fosse una zuppa’, ha scritto Vešovic…».
Egli volle rifiutarsi di diventare uno dei protagonisti dei massacri nella Bosnia di fine Novecento, come accadde al poeta e psichiatra Karadžic, appunto, ma anche volle negarsi «gli entusiasmi simili a un / cantante di opera, che fu costretto a cantare, a Buchenwald, / le sue grandi arie / mentre i prigionieri venivano torturati!» (da Il gatto). La sua soluzione fu quella di resistere al male storico e poi di uscire dal tempo della guerra con la sobrietà di chi, pur smarrito, non poteva che appigliarsi ai valori di una democrazia fragilissima perché appena nata ma anche perché subito spartita tra le nuove mafie politico-religiose che da Dayton in poi governano la Bosnia ed Erzegovina.
Il suo impegno fu anche parlamentare, in un partito liberale, ma soprattutto fu pratica della parola cercando di far sì che questa non cedesse più al crimine, come troppo facilmente accadde negli anni della fine della Jugoslavia socialista, e accade tuttora.