Leonardo Sciascia, in un articolo del 1983 solo di recente raccolto nel volume adelphiano Fine del carabiniere a cavallo, dedicò una delle sue memorabili divagazioni a due romanzi scritti in tempi diversi e provenienti da aree geografiche differenti, quasi certamente sotto la spinta di due suggestioni che in lui si mostravano da sempre irresistibili, naturali, quasi automatiche, vale a dire da un lato il richiamo sia pure nominale all’isola e dunque allo spazio consueto della sua ininterrotta investigazione, dall’altro una qual certa nuvoletta stendhaliana foss’anche poco spessa e passeggera (nel caso specifico, per li rami solo allusi di Lucien Leuwen). Il primo era Il Re delle due Sicilie del polacco Andrzej Kusniewicz, datato 1970 e uscito in italiano per Sellerio nel 1981; il secondo, Due Sicilie del viennese Alexander Lernet-Holenia, pubblicato nel 1942 e stampato nel 1982 da Serra e Riva nella versione di Elisabetta Bolla, adesso è tornato nelle librerie nella nuova e ottima traduzione di Cesare De Marchi (Adelphi «Biblioteca», pp. 243, euro 19,00). A proposito di quest’ultimo, eccezion fatta per quella che egli definiva una «banale» e addirittura «dozzinale trama poliziesca», Sciascia ne sottolineò l’«eccezionale acutezza», «una visione di quel mondo – e che mondo – sottile e struggente» con, al centro, l’«oscuro e angoscioso mistero dell’identità (da richiamare, insieme, Stevenson, Pirandello e Borges)».
Ora, risulta assai strano come proprio a Sciascia sia potuto sfuggire un dato evidente a chi legga questo (e non solo questo) romanzo di Lernet-Holenia (1897-1967), ovvero l’utilizzo dell’intreccio giallo in quanto puro e semplice pretesto, quasi un rovesciamento o una parodia di quel genere letterario, un poco alla maniera di Dürrenmatt, per poter meglio e con un agio che si potrebbe definire metafisico mettere in scena (per l’appunto) le aporie dell’identità e la ormai cangiante, fragile, sfrangiata unità del soggetto (invece per lo scrittore svizzero, visto che lo abbiamo chiamato in causa, si trattava di sottolineare le aporie della legge e del diritto). Non a caso i personaggi di Due Sicilie si muovono e agiscono (finché possono) come marionette di un teatro filosofico, di idee, dimostrativo, il cui destino appare fin dapprincipio segnato da un destino insieme imperscrutabile e già scritto, paradossale e spietato. Gli uomini sono idee e, al pari di queste, si consumano e muoiono. La loro interiorità oppure la loro psicologia è azzerata, svuotata, come a significare che qualcosa di umano è finito o sta per definitivamente finire (l’autore, va ancora ricordato, compone la sua opera in piena guerra mondiale).
I sette capitoli del romanzo – ognuno dei quali porta per titolo il cognome degli ultimi reduci del disciolto reggimento «Due Sicilie» – si inseguono dentro un arco di tempo brevissimo e febbrile, nel 1925, dunque a un settennio di distanza dalla fine del primo grande conflitto. «Una pace profonda», scrive Lernet-Holenia, «anche se al colonnello pareva che non fosse pace. Pur sembrando impossibile che essa si mutasse in guerra, era in definitiva meno pace che mai. Tutti i cuori erano rimasti inquieti, e chi parlava di pace non si riferiva mai al presente in cui stava vivendo, bensì all’anteguerra. E se mai fosse tornata la guerra, non si sarebbe trattato di una nuova guerra, ma ancora di quella d’un tempo».
Il romanzo, stante un simile sentimento, si potrebbe anche leggere alla luce di una generalizzata nevrosi di guerra in tempo di pace. Ma si tratta solo di un aspetto parziale seppure essenziale. Ognuno di quei sopravvissuti porta in sé una tacita istanza di autoannientamento, un’incapacità di adattarsi a un tempo sospeso e anzi un’impossibilità di pensare a un mondo diverso da ciò che nella loro memoria da sempre era stato. Essi allora, nel mentre ragionano e disputano, via via si dileguano, misteriosamente scompaiono, vengono assassinati e restano vittima di morte accidentale. «Era quella un’epoca», aggiunge ancora Lernet-Holenia, «in cui non si amava la morte, senza peraltro saper vivere realmente». Si potrebbe dire, giusto per parafrasare Sciascia, che in questo romanzo ragionare è morire.