Nel suo Pinocchio scritto «in parallelo» al libro di Collodi, Giorgio Manganelli s’interroga sullo statuto per così dire ontologico del burattino: «Il burattino ha qualcosa di uomosimile, ma da che parte? Come inferiore o come modello? (…) non è che legno, ma asciutto, duro, e il suo nemico non è la lenta decadenza delle membra, ma il fuoco».
Provvisto di una forma che «per un misterioso gioco tra platonico e aristofanesco, include in sé la solitudine e il riso», il burattino nella sua «durezza geometrica», «fragilità» e «astrazione» sembra alludere ad archetipi che travalicano la mera sembianza umana, come ad esempio «il triangolo, la luce, il cavallo in sé, la sillaba». Cosicché Manganelli, attribuendo a quei pezzi di legno una coscienza propria, irriducibile alla nostra, si chiede se non debbano vivere il loro utilizzo teatrale «come una degradazione nell’umano, una finta ma umiliante incarnazione nella storia».
Di certo l’ambiguità del burattino, «animato» dalla mano di chi lo muove, ma dotato al contempo di una identità stereotipa pienamente autonoma ed estranea a ogni finalità mimetica che non sia l’adesione al proprio personaggio, si rivelò provvidenziale per gli artisti delle avanguardie novecentesche intenzionati a rompere con le convenzioni sceniche e le pretese illusionistiche elaborate fin lì dal teatro borghese.

NON A CASO, il geniale marionettista praghese Richard Teschner rabbrividiva al solo pensiero dei fondali con castelli e foreste «che sembravano veri» e sognava un teatro simbolista di marionette che, nella sua palese alterità rispetto al reale, avrebbe finalmente accolto tutto ciò che sulle scene «umane» non era (ancora) permesso: «Le cose più favolose che non si potrebbero mai portare sul grande palcoscenico: gnomi e giganti, embrioni e diavoli, principesse nude e crude con peli pubici d’oro e capezzoli di vetro rubino, arrapamento, peste e morte viola!».
L’aspirazione a un teatro non più naturalistico, dove la finzione scenica non venga occultata, bensì esibita, è al centro della originalissima mostra Marionette e avanguardia, curata da James M. Bradburne e visibile presso Palazzo Magnani a Reggio Emilia fino al 17 marzo 2024. Un progetto che, partendo dalla ambivalenza dell’attributo «uomosimile» individuato da Manganelli, ripercorre la pervicacia visionaria con cui le avanguardie storiche si servirono di varianti vuoi autoctone, vuoi esotiche della figura del burattino per proiettarsi al di fuori di messinscene realistiche stancamente aggrappate alla capacità dell’attore di «calarsi nel personaggio».
Già nel 1810 Heinrich von Kleist nel suo testo Sul teatro delle marionette ascriveva alle figure mosse da fili un indubbio vantaggio rispetto agli interpreti in carne e ossa: quello di non fare mai smancerie. Questa prospettiva astratto-geometrica verrà ripresa da Oskar Schlemmer, direttore del laboratorio teatrale del Bauhaus dal 1923 al 1929, che alla vigilia della rappresentazione del suo Balletto Triadico nel luglio 1926 al festival di Donaueschingen (con musiche per organo meccanico composte da Paul Hindemith) si domandava: «i ballerini non dovrebbero essere in realtà marionette, tirate da fili o, meglio, mosse automaticamente da un meccanismo di precisione, quasi senza intervento umano, se non da un invisibile quadro di controllo?».

A VEICOLARE la trasformazione dei danzatori in automi fu l’utilizzo di maschere e costumi «plastico-spaziali», talora ispirati agli arti artificiali della chirurgia o agli scafandri e agli indumenti protettivi militari ideati durante la Grande Guerra. Nulla di sorprendente se ne scaturiva un effetto di pesantezza spesso inquietante, opposto al culto della lievità professato all’epoca dai Balletti Russi di Sergej Djagilev.
Schlemmer traspose dunque sul palcoscenico quella metamorfosi dell’essere umano in manichino che la pittura metafisica di Carlo Carrà aveva già attuato nel decennio precedente, come testimoniano i due prestiti dalla Pinacoteca di Brera Madre e figlio e La musa metafisica, entrambi del 1917.
La dialettica fra vivo e inerte, animato e immoto, si approfondisce nelle prime due sale non solo grazie al confronto con i modernissimi pupazzi creati da Fortunato Depero per i Balli plastici inscenati al Teatro dei Piccoli di Vittorio Podrecca a Roma, ma anche con i non meno stupefacenti Dieci burattini futuristi di Enrico Prampolini, presentati al Cabaret del Diavolo di Gino Gori sempre a Roma nel 1922.

Sophie Taeuber-Arp, ideazione e esecuzione di «Pappagallo», 1918

RITROVATI UN ANNO FA da Nicoletta Boschiero nella collezione di Mario Bagliani e collocati su una base girevole che permette di apprezzarne la tridimensionalità, questi fantocci caricaturali ed eppure riconoscibilissimi (almeno quello di Mussolini…) riproducono in scala i protagonisti della coeva scena politica italiana – dal re a don Sturzo, da Giovanni Giolitti a Francesco Saverio Nitti, passando ovviamente per D’Annunzio – eternandoli nel legno con espressioni di corrucciata litigiosità.

UN’ATMOSFERA TRASOGNATA e atemporale subentra invece nelle sale successive, a partire da quella dedicata per l’appunto a Teschner, che innestò il burattino a bastone del teatro giavanese delle ombre (Wayang Kulit) sulla marionetta europea a fili, ottenendo una sintesi assai peculiare, innervata dal gusto modernista per il perturbante e dalla raffinatezza formale dei Wiener Werkstätte.
Una sensibilità che, stravolta in chiave dada, si ritrova anche nelle marionette realizzate da Sophie Täuber-Arp per il testo della Commedia dell’Arte Il re cervo di Carlo Gozzi, riletto in chiave ironicamente anti-freudiana a Zurigo nel 1918 alla vigilia dell’epidemia di spagnola. Un’intera sezione è dedicata agli esperimenti dell’avanguardia russa, in primis le dieci «persone marionettistiche» disegnate da El Lissitzky nel 1920 per una nuova messinscena post-rivoluzionaria di Vittoria sul sole (l’opera ideata nel 1913 da Aleksej Kruchnych, Michail Matjushin e Kazimir Malevic) che trovava il suo emblema nella figura dell’Uomo nuovo, proteso verso il radioso avvenire con tanto di stella rossa al posto dell’occhio. Più legati alla tradizione popolare russa da una parte e, dall’altra, al repertorio teatrale occidentale (Shakespeare compreso) erano i burattini di Ivan Efimov e Nina Simonovic-Efimova.

Paul Klee, «Clown dalle orecchie larghe», 1925

A PARTIRE dalla rivoluzione d’Ottobre, i coniugi moscoviti si cimentarono sia con le marionette a guanto, sia con imponenti burattini a bastone ad altezza d’uomo, esibendosi sul battello di propaganda V.I. Lenin che nell’estate 1921 solcò il Volga, ma anche in innumerevoli asili d’infanzia. Proprio al teatro degli Efimov Pavel Florenskij dedicò nel 1924 uno scritto illuminante in cui osservò come la mano, indossando su di sé le fattezze del burattino, si emancipi dalla propria sottomissione all’intelletto, diventando così «corpo, veicolo e mezzo di espressione di forze altre, ignote alla nostra coscienza feriale».
Una magia che non dovette essere estranea nemmeno a Paul Klee, visto che tra il 1916 e il 1925 l’artista creò per suo figlio Felix un intero stuolo di marionette a guanto, comprendente, oltre ai personaggi tradizionali Kasperl e Gertl, anche un «clown dalle orecchie larghe», un «poeta coronato», uno «spaventapasseri fantasma» e addirittura un pupazzo cui donò le proprie fattezze – l’unico suo autoritratto attestato.
Contemplando questa stralunata congerie di tipi, talmente unici nella loro individualità e, al contempo, così radicati nel repertorio onirico involontariamente frequentato da noi tutti, viene da ricordare Florenskij e le sue pagine sul teatro dei burattini che «scintillante ai raggi al tramonto, si apre ora e sempre come una finestra sull’infanzia eternamente viva».