Constantine e Karina in «Agente Lemmy Caution: missione Alphaville»

Per una delle sue regie con il giovanissimo gruppo di Falso Movimento Mario Martone aveva scelto come riferimento il film di Godard, Alphaville: une étrange aventure de Lemmy Caution, 1965, in cui un agente segreto (lo interpretava Eddie Costantine) veniva mandato in missione su un pianeta di un’altra galassia dove erano state cancellate le emozioni. Lo spettacolo si chiamava Ritorno a Alphaville, in scena c’erano tra gli altri Licia Maglietta, Vittorio Mezzogiorno (in video), Andrea Renzi, Tomàs Arana, Toni Servillo, Antonio Neiwiller quella che era già la nuova generazione del teatro a Napoli e in Italia.
Martone immaginava che un nuovo agente tornasse a Alphaville per recuperare gli schemi di Alpha 60, il super computer distrutto da Lemmy Caution, muovendosi in una realtà inquieta tra la fantascienza e il noir che dialogava col suo presente, il 1986. Un gesto d’amore la dichiarazione di Godard come un riferimento centrale per la sua ricerca. Di questo parliamo al telefono insieme a Mario Martone, in una pausa dalle prove della sua prossima regia d’opera alla Scala, Fedora, che debutterà il 15 ottobre.

Che cosa ha significato nel tuo lavoro Jean-Luc Godard?

Ci ha permesso di vedere un’altra dimensione del cinema grazie al montaggio inteso come un’estensione del cinema stesso. Quando abbiamo messo in scena Ritorno a Alphaville mi è apparso chiaro che il montaggio non riguardava solo il cinema o il teatro ma era un modo di pensare la vita. Quella sua frase, «il cinema filma la verità 24 volte al secondo» apriva un orizzonte nuovo e inedito nella percezione delle immagini, una riflessione che Godard non ha mai messo da parte. Se penso a un film tra i suoi più recenti come Adieu au langage (2014), che è meraviglioso, conserva in sé un modo di fare cinema che è vicino a quello di quarant’anni prima, e al tempo stesso rivela le intuizioni sull’avvenire. Non smetterò mai di ringraziare Godard per averci aperto gli occhi sulle possibilità che il cinema offre nell’esistenza, nella politica. Per lui non era un fine ma lo strumento del suo pensiero attraverso il quale restituire una visione della vita e del mondo.

«Ritorno a Alphaville» lavorava su una scomposizione del tempo, della scena, della narrazione. È stato anche per queste possibilità che hai scelto quel film? Lo spettacolo aveva in sé una dichiarazione formale forte che diveniva inevitabilmente politica.

Scomporre, aprire, mutare prospettiva significa guardare la vita, è questa l’idea del montaggio in senso esistenziale e politico. Ed è questo che ci ha mostrato e insegnato Godard con la sua opera. Era un vero gigante. Ricordo ancora quanto sono stato felice e onorato di sapere che aveva apprezzato il mio Teatro di guerra (1998). Nelle sue immagini fa esplodere la realtà, il linguaggio, li assorbe per poi restituirli con nuovi significati. È un regista, un filosofo, la sua parola ha pensato una maniera più ampia di abbinare rigore e libertà in una grande lezione che non si può imitare.

Inimitabile eppure un riferimento dichiarato per molti.

Nessuno può e poteva fare film come Godard, né Bertolucci che lo ha molto amato né Tarantino che sempre dichiarato l’influenza di Godard nel proprio lavoro. Quella che chiamo la sua «lezione» è qualcosa di ancora più profondo, un pensiero che ha seminato e che è legato alla natura generale del cinema.