In una delle conversazioni registrate nel corso degli anni e poi pubblicate dall’amico Elvio Gandolfo, Mario Levrero assegna una data precisa al suo esordio di scrittore: il primo luglio del 1966, giorno in cui terminò La ciudad, il primo testo che avrebbe deciso di non cestinare. Quando lo aveva cominciato era talmente immerso nella lettura di Kafka da non poterne prescindere: «Ho cercato di imitarlo, volevo essere Kafka (…). Ci ho provato, e non ho neppure cercato di nasconderlo. In seguito questa influenza si è molto attenuata, non ho mai più tentato di scrivere come un altro o di essere un altro».

Aderire così profondamente a un modello ineguagliabile fece sì che il ventiseienne scrittore provasse un curioso senso di estraneità nei confronti del romanzo; forse per questo decise di non firmarlo per esteso, e da Jorge Mario Varlotta Levrero divenne una volta per tutte Mario Levrero. L’opera e il suo autore nacquero dunque insieme, anche se il quasi-pseudonimo comparve per la prima volta sulla plaquette «Gelatina», racconto in cui un’amorfa massa gelatinosa inghiotte via via uomini ed edifici, apparso nel 1968 in appendice a un’ effimera rivista.

La città (ora in libreria nella traduzione di Cinzia Imperio per La Nuova Frontiera, pp.160, € 15,00) fu infatti pubblicato quattro anni dopo la sua fulminea stesura (Levrero lo scrisse un due settimane) e venne infine inserito, con i romanzi brevi París e El lugar, in una trilogia definita «involontaria», perché solo a posteriori l’autore si rese conto che le tre opere, pur differenti tra loro, avevano in comune una cupa coloritura urbana.

Non di solo Kafka
Se è vero che il romanzo fa ampio ricorso all’assurdo, ad atmosfere claustrofobiche, ad ambienti di immensa desolazione governati da logiche incomprensibili, all’intervento di forze misteriose che controllano il destino dei personaggi, all’incombere di edifici che ricordano in qualche modo Il Castello, trasmutato in una labirintica e luccicante stazione di servizio, man mano che ci si inoltra nel testo è possibile accorgersi che la filiazione kafkiana rischia di suggerire una lettura fin troppo riduttiva, mettendo in ombra altre ed eterogenee influenze, che col tempo diverranno più evidenti, senza tuttavia alterare l’unicità di Levrero.

Già in La città, infatti, è possibile individuare la linea quasi impercettibile che lo collega ad autori altrettanto unici e inclassificabili, da Felisberto Hernández a Onetti e, non ultimo, a Lewis Carroll (il protagonista della Città non somiglia forse un’Alice più conciliante e arrendevole, ma altrettanto stupefatta, piombata a capofitto in un «buco nero» traboccante di allegorie?). Pur senza sottrarsi all’ombra di Kafka, la cui presenza si manifesta già nell’epigrafe tratta da Aforismi e frammenti, il romanzo non è il pastiche di un principiante entusiasta, scritto e concepito «alla maniera di…», ma il punto di partenza di una ricerca che, attraverso fasi diverse e sempre brillanti, si concluderà con un capolavoro postumo, Il romanzo luminoso (Calabuig, 2014), una delle opere capitali della letteratura in lingua spagnola di questo secolo, paradossalmente incentrato sull’impossibilità di scrivere (o forse, meno paradossalmente, di vivere).

La narrazione della Città comincia in medias res, quando l’innominato protagonista (del quale non conosceremo l’aspetto, la professione e l’età, e che ci appare pronto a lasciarsi trascinare dagli eventi senza opporre troppa resistenza) entra per la prima volta nella casa umida e fatiscente in cui si è trasferito, poi si avventura all’esterno per fare acquisti. Ma è notte, piove a dirotto e l’uomo si allontana, non sa più dov’è, si perde e chiede aiuto a un camionista, ritrovandosi in viaggio con un guidatore silenzioso e una maligna donnina, finché, al mattino, il veicolo si ferma nel nulla della pianura pampeana e i due passeggeri vengono brutalmente scaricati. Invece di tornare a casa, il protagonista se ne è incredibilmente allontanato, per raggiungere un miserabile paesetto chiamato «la città».

A prima vista tutto appare normale, eppure nulla lo è, tra le poche case dominate da un’enorme e inutile stazione di servizio, il cui gestore ospita il nuovo venuto e cerca di convincerlo a rimanere, offrendogli lavoro a nome di una tentacolare Impresa che impone al villaggio il suo inappellabile regolamento e promette da anni un radioso futuro. I pochi abitanti vestiti con logore tute da meccanico, le rare e inquietanti figure di donna, gli edifici che sembrano più vasti all’interno che all’esterno, gli incongrui negozietti, possiedono la stessa insensata e appiccicosa qualità dei sogni, e il protagonista, sempre più perplesso, rischia di restarvi invischiato, anche se alla fine un guizzo di ottimismo dell’autore gli consentirà di trovare una via d’uscita, facendolo cadere in «un sonno denso, profondo, nero, come un mare immenso e tiepido, senza immagini, senza parole, senza pensieri».

L’elemento onirico, onnipresente in Levrero, gioca sin da questo primo romanzo il ruolo fondamentale che l’autore gli assegna in tutte le sue opere, quello di mettere in luce l’assurdità del reale e la sua estrema incertezza, perché per Levrero i sogni sono «una parte della realtà, intrecciata impercettibilmente al resto», deformata e soggetta a oscillazioni spazio-temporali ma non per questo meno autentica.

Non deve sorprendere, quindi, che lo scrittore si rifiutasse di includere i suoi romanzi nella letteratura fantastica (o, in modo ancora più improprio, nella fantascienza), e respingesse presunte ascendenze surrealiste; La città e l’intera trilogia, come i mirabili racconti («Cuentos Completos», Literatura Random House 2019) e buona parte dei romanzi, sono intensamente metaforici e puntano all’esplorazione dei limiti dell’io, dei labirinti interiori, anche là dove l’autore preferisce ricorrere, come nei suoi irridenti «polizieschi», alla più sfrenata parodia, oppure si dedica, come nei testi ultimi, alla minuta annotazione di una quotidianità che non ha più bisogno di essere inventata o ricreata.

Tutta una serie di trappole
La naturalezza e il linguaggio semplice e intensamente visivo che caratterizzano quest’opera prima si evolveranno fino a raggiungere l’ipnotica complessità del Romanzo luminoso, ma in La città Levrero si mostra già in grado di intraprendere un viaggio attraverso la scrittura e le sue infinite possibilità, usandola come un filtro per svelare e leggere ogni sfaccettatura della realtà, in tutte le sue forme. Stabilisce, inoltre, alcune costanti, dalle presenze femminili elusive e provocatorie, all’esplosione improvvisa di una violenza quasi surreale, fino alla rappresentazione della città come figura illeggibile e ostile, sulla quale i protagonisti proiettano conflitti, paure e frustrazioni, rendendola simile a uno specchio mutevole e sinistro. Una città che è, kafkianamente, spazio metaforico e simbolico, labirinto senza uscita apparente in cui vigono regole incomprensibili e controllo assoluto, ma che svela anche la sua natura più concreta: un luogo che ha smesso di essere casa o rifugio dove è possibile abitare ed esistere, per tendere a chi la attraversa un’infinita sere di trappole, proponendosi come un enigma non risolvibile.

Ed è forse questo l’aspetto che, al di là degli ipnotici giochi narrativi destinati a manipolare e disintegrare la logica del mondo empirico, rende nostro contemporaneo il primo romanzo di Levrero.