Come si esce dalla più grave sconfitta italiana del dopoguerra, ovvero la distruzione del regime Gheddafi voluta nel 2011 da Usa, Francia e Gran Bretagna? Draghi, che di Medio Oriente e Nordafrica ne mastica pochino ma segue alla lettera il nuovo manuale Biden-Blinken, ci prova – dopo le oscillazioni italiane del recente passato tra Tripoli e Bengasi – e lo fa con un preciso mandato «atlantista»: schierare l’Italia con l’Unione europea e la Turchia sul fronte che si oppone all’influenza della Russia in Cirenaica.

Nel menù di Draghi ci sono diverse materie, servite nell’immancabile salsa di “green”: gas, petrolio, appalti autostradali e, naturalmente, il dossier migranti, con l’obiettivo non troppo nascosto di tornare alla Libia di Berlusconi e del Raìs, come a tutti gli instabili governi tripolini che si sono succeduti – con rispettive guerre civili – alla fine supportati pure dallo stile neo-coloniale di Minniti. Un posto dove tenere i profughi alla larga dai noi, in campi di concentramento e prigioni fuori dalla vista delle telecamere. La Rai ha già dato un suo bel contributo di propaganda intervistando dei profughi sudanesi, «ansiosi di tornare nella loro patria di origine». Dalla quale non si sa perché sono scappati. Mistero: forse abbiamo perso qualche cosa nella traduzione. Lost in translation.

L’infinita transizione libica, rappresentata dal nuovo governo di unità nazionale con cui oggi va a trattare il premier, è essenzialmente questa: dietro la nascita del governo libico e del rinnovato fronte atlantista c’è una sconfitta militare derivata dallo scontro tra due coalizioni.

La prima, costituita da Turchia e Qatar, ha fornito sostegno bellico e finanziario (consiglieri militari, mercenari e droni) per difendere il governo tripolino affiliato ai Fratelli musulmani. La seconda, formata da Russia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, ha appoggiato l’offensiva fallimentare del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. In questo secondo fronte era schierata anche la Francia che però quando ha visto la mala parata di Haftar si è riposizionata usando i canali europei e ha inviato a Tripoli il suo ministro degli esteri Le Drian nella “trojka” diplomatica di Bruxelles insieme a Di Maio e al tedesco Maas.

Il tutto condito dal fresco rinnovo della missione navale Irini, incaricata dalle Nazioni Unite di attuare l’embargo sulle armi in Libia e guidata da Roma. Una missione che potrebbe evolvere anche nel monitoraggio del cessate il fuoco, cosa non esclusa anche da Josep Borrell l’alto rappresentante della politica estera europea: «Irini è incaricata di attuare l’embargo, non di monitorare il cessate il fuoco. Ma gli stati europei saranno pronti a considerare un’eventuale richiesta delle Nazioni unite». In poche parole gli europei sono pronti a partire, con soddisfazione anche degli americani.

La situazione libica sul campo per il momento è quella di uno stallo intorno a un sorta di “Linea Maginot”. Dopo la sconfitta, i miliziani di Haftar e i mercenari alleati, come la Compagnia russa Wagner, si sono ritirati al confine tra Tripolitania e Cirenaica, scavando una lunga trincea nel deserto con una trentina di postazioni difensive che da Sirte arrivano alla base aerea di Jufra, dove la Russia ha portato dalla Siria decine di aerei da combattimento riverniciati senza insegne: una Maginot progettata da chi non ha alcuna intenzione di andarsene dalla Libia. Il ritiro di truppe e mercenari stranieri al momento appare assai improbabile.

Questa trincea è diventata con l’amministrazione Biden una sorta di «cortina di ferro» libica da sgretolare: il segretario di stato Usa Antony Blinken, che durante l’amministrazione Obama fu nel 2011 un grande sostenitore dei raid Nato contro Gheddafi – una «vittoria» che consegnò il Paese alle fazioni islamiste e che già nel 2012 si rivelò come tragedia per Washington, con l’uccisione dell’ambasciatore Chris Steven – , non ha fatto mistero di non gradire per niente la presenza della Russia sulla Quarta Sponda e ha chiamato a raccolta la Nato e gli europei per contrapporsi a Mosca.

Blinken ritiene che Trump abbia lasciato un vuoto devastante nel Mediterraneo che i russi hanno riempito in Libia e in Siria. E come collegato disposto Usa c’è la questione del gas: «no» di Washington al gas russo ai tedeschi con il Nord Stream 2 e via libera invece allo sfruttamento delle risorse energetiche libiche e del Mediterraneo orientale. Ecco perché in Libia con il gasdotto Greenstream e l’Eni gli italiani possono tornare utili alla strategia Usa di contrasto a Mosca. E anche questo è uno dei motivi perché Di Maio è andato due settimane fa a Tripoli a incontrare il nuovo governo con il capo della compagnia italiana Descalzi, che vorrebbe raddoppiare o triplicare le forniture dalla Libia.

Il problema è che Draghi arriva in una Tripoli dove l’Italia ha perso l’ascendete che ha avuto per decenni. Il Paese è stato trascinato dall’intervento del 2011 in un conflitto devastante che ha fatto della Libia il terreno di scontro di potenze che non hanno esitato a bombardare, a forgiare alleanze e ribaltarle, frammentando ancora di più il quadro tribale e dei potentati locali. Gli italiani qui non sono più protagonisti e Draghi torna in Libia da atlantista, in condominio con gli europei, rischiando di diventare pedina di un altro pezzo della nuova guerra fredda.