Mario Dondero è stato il fotografo intenzionalmente meno lezioso della sua generazione, «troppa estetica uccide la verità» ha affermato più volte, e in virtù di questo ha creato un proprio conio inconfondibile di rara e scarna efficacia dallo stile classico, opponendo proprio il naturale all’artificiale di un’arte per sua natura estetizzante. Come pochi ha saputo rappresentare soprattutto nel suo bianco e nero inimitabile i soggetti che ritraeva con uno stile francescano riducendo al minimo gli effetti del mezzo fotografico, esaltando invece quelli umani ed empatici dell’incontro, perché considerava la fotografia un mezzo per praticare «l’arte dell’avvicinamento» verso gli altri, come chiamava questa attività di relazione, oppure «il collante delle relazioni umane».

SEMPRE, COME AVREBBE detto Orwell, con impulso storico e fine politico. Quindi il titolo di questa antologica che si aprirà il 21 a Palazzo Reale a Milano, La libertà e l’impegno, curata da Raffaella Perna (catalogo di Silvana editore, visitabile fino 3 settembre), grazie al prezioso lavoro della Fototeca di Altidona, dove da anni si lavora alla costruzione del monumentale dell’Archivio di 600mila scatti, coglie nel segno di una condotta infaticabile ed eccentricamente nomade del nostro Kapuscinski della fotografia – zingaresco ed errabondo come il suo modello di reporter Robert Capa –, quello che diceva di sé, del proprio lavoro di osservatore militante, «sono nato uno che guarda», e pensava come Benjamin che «una foto vale mille parole».
Le istantanee di Dondero tornano a Milano, la sua città, dove cominciò a fotografare insieme al suo amico Ugo Mulas nel dopoguerra finita l’esperienza partigiana in val d’Ossola, e dove visse l’indimenticabile stagione del Bar Giamaica insieme all’inseparabile Luciano Bianciardi, e a quelli che chiamava «superamici» come Carlo Bavagnoli, Alfa Castaldi e Uliano Lucas, la Milano delle ballerine d’avanspettacolo e di chansonnier come Jannacci e Maria Monti.
In questi cento scatti ci sono i suoi tanti mondi visti da vicino con l’occhio di chi vuole esserci, testimoniare, innanzitutto la vita della gente comune, soprattutto gli umili e i semplici, il piccolo barman sorridente di Barcellona che gli ricorda un racconto dei 49 di Hemingway, una famiglia del sud emigrata a Torino, i bambini figli di contadini che tornano da scuola in una strada sterrata nella Pianura Padana, ma anche i dannati della terra che raccontava sempre con spirito letterario come se scrivesse invece di fotografare, sintesi ottenuta anche alle molte letture degli scrittori che considerava coscienze civili come Pier Pasolini, in mostra con il ritratto simbiotico con la madre, sul set di Comizi d’amore, ma anche su quello di Accattone con Franco Citti, un ritrovamento recente.

Ballerine di avanspettacolo, Milano, 1953 (Archivio Dondero)

MARIO DONDERO è stato un fotografo e un intellettuale libero che non si è mai assoggettato alle logiche di mercato, alle mode, alla mondanità, da cui si teneva alla larga, ma onnivoro di realtà, come testimonia anche la selezione fatta per questa mostra, ha raccontato i grandi fatti della storia e del secolo breve, come le rivolte del maggio francese del 1968 e gli scontri di piazza, le assemblee studentesche alla Sorbonne, sempre in quell’anno il viaggio in Irlanda della militante Bernadette Devine, gli operai della Renault in sciopero a Boulogne-Billancourt, e poi i diffusori de L’Unità a Reggio Emilia, il popolo del Pci, i giorni precedenti la caduta del muro di Berlino, fino agli ultimi reportage fatti negli ospedali di Emergency a Kabul.
Così come ha frequentato e raccontato i grandi artisti senza nessuna enfasi o con l’intenzione di immortalarli in posa, ma li ha fotografati semplicemente come comuni mortali: la divina Carla Fracci che guarda la vetrina di un negozio londinese, Günter Grass dietro l’acquario che osserva i pesci rossi, Dacia Maraini sorridente per strada, un pensoso Félix Guattari, quella a colori di un giovane Guttuso, anche questa inedita.

MA C’È ANCHE quella celebre del Nouveau Roman scattata nella sede delle Edition de Minuit con gli scrittori Alain Robbe Grillet, Claude Simon, Claude Mauriac, l’editore Jérôme Lindon, Robert Pinget, Nathalie Sarraute, Claude Ollie e il magnetico Samuel Beckett di cui tutti sembrano avere una sorta di timore reverenziale e istintivo distacco.
Smanioso di viaggi, tutta la vita randagio sui mezzi di trasporto con la macchina fotografica a tracolla, Dondero ha raggiunto anche mondi lontani, come l’amata Cuba, i continenti africani attraversati durante le guerre di liberazione, l’Algeria, il Niger dove ha ritratto i giovanissimi pastori nomadi, cuore di tenebra del mondo e luogo magico della vita, dove coglie soprattutto nella gente l’allegria e la libertà nel vivere e inventare il tempo dentro quella «alternativa nomade» di cui parlava Chatwin. Viaggiava per fotografare e vivere ad alta intensità, ma anche «per non diventare cieco», come scrisse Josef Koudelka, un altro maestro della fotografia.