Lo tsunami giudiziario che ha travolto Roma non è «un meteorite che deflagra in un giardino pulito: negli ultimi anni era chiaro l’affermarsi di una vera e propria mutazione genetica del concetto stesso di azione politica». Nicola Zingaretti prova a riportare la politica al centro dell’attenzione del Consiglio regionale riunito appositamente per ritrovare una bussola nel pantano galattico di Mafia capitale.

All’estrema periferia di via della Pisana come sul colle del Campidoglio è palpabile la fibrillazione per gli ultimi sviluppi di un’inchiesta che sembra infinita e rivoluzionaria come una novella Tangentopoli, ma soprattutto per il diluvio di intercettazioni e teoremi accusatori costruiti più sulle pagine dei giornali che nelle stanze della procura. Il Pd para i colpi, uno su uno, come in un campo di pelota, anche se da ieri è meno solo, unito nell’«Oro pro nobis» che inguaia l’alleato di governo.

Forte del fatto che «nessun membro della giunta è coinvolto» e con un nuovo capogruppo dem al posto del dimissionario Vicenzi, non indagato ma citato nelle carte dei pm, Zingaretti annuncia che la Regione si costituirà «parte civile al processo che inizierà il 5 novembre prossimo», e rinvia al mittente le richieste di dimissioni avanzate dall’opposizione. Anche se poi ammette: «Siamo stati un argine ai disegni criminali, ma probabilmente non sufficiente».

Si scaglia però contro l’«eccesso di giustizialismo che non fa più distinzioni» tra «un arresto suffragato da prove e una frase pubblicata su atti non ritenuti rilevanti dalla Procura». Matteo Orfini lo difende, come difende Ignazio Marino. Il Pd è ormai unito attorno al sindaco di Roma, come conferma il commissario in missione per Renzi che annuncia per giovedì la direzione del partito romano «in cui approverò, come previsto dallo statuto, le nuove regole per il tesseramento, che riaprirà sabato».

È vero, la blindatura è totale ma Gianni Cuperlo, mentre riorganizza la minoranza unendo la sua Sinistra dem con l’area riformista di Speranza, suggerisce a Marino, «da persona onesta qual è», di dire: «Io sono arrivato a scoperchiare tutto questo, mi fermo qui, ridatemi la fiducia».

L’ex “marziano”, inviso a suo dire ai «capibastone» del Pd, a sua volta blinda il vicesindaco Luigi Nieri, sotto attacco di certi scenari mediatici disegnati a partire dalle chiacchiere di Buzzi che lo definirebbe «fuso» e molto pressante con richieste di assunzioni. L’esponente di Sel minaccia querele e replica: «Se Buzzi cercava in me una sponda, non l’ha mai trovata, tanto che parla di me con disprezzo e veemenza». Seppure avesse mai chiesto al presidente della Coop 29 giugno di assumere qualcuno, spiega sui social network, non sarebbe stato certo per un parente o un amico, «magari per un detenuto che aveva bisogno di un lavoro per ottenere le misure alternative. E qual è – incalza – il compito della cooperazione sociale se non quello di reinserire queste persone?».

Ma non si limitano alla difesa, Marino e Nieri. Vanno al contrattacco. Nel pomeriggio mollano tutto e raggiungono, con mezza giunta al seguito, la fiaccolata per la legalità organizzata da Cgil, Cisl e Uil a cui ha aderito anche Sel. L’«antimafia sociale», come la chiama il vicesindaco che ha passato tutto il pomeriggio seduto al tavolo con i sindacati del pubblico impiego per la trattativa che riguarda i dipendenti capitolini, li accoglie tra applausi e fischi. I lavoratori della Multiservizi intonano cori di «dimissioni». Nieri non si scoraggia: «In questa fase serve partecipazione e coinvolgimento, la mafia si batte con l’anti-mafia sociale».

Dal palco però il segretario generale della Cgil di Roma e Lazio Claudio Di Berardino ringrazia il sindaco che ci ha messo ancora la faccia: «Un grande gesto, il mondo del lavoro te ne dà atto». Perfino la Uil concede: «Se ci sono le condizioni affinché Marino continui a governare per noi va bene». Il nuovo patto tra la politica e le forze sociali può iniziare da qui. L’orizzonte stasera è chiaro: «Il mio umore? – risponde a domanda di un cronista Marino – Ottimo».