Secondo la Cnn che cita fonti militari americane, oltre duecento marines sono stati spostati ieri da una base militare Usa in Spagna a quella di Sigonella, dopo le tensioni tra Washington e Libia per il blitz che ha portato alla cattura di Abu Anas Al-Liby, uno dei leader di al Qaeda. La mossa è collegata a «potenziali minacce» alla sicurezza della missione diplomatica americana in Libia. Il governo libico infatti ha convocato l’ambasciatrice Usa Deborah Jones: per avere chiarimenti sulla cattura del presunto leader di al Qaeda Nazih Abdul Hamed al-Raghie, nome di battaglia Abu Anas al-Libi, prelevato a fine settimana a Tripoli dalle squadre speciali Usa, in pieno giorno. «Un sequestro», per le autorità libiche, deciso a loro insaputa. Affermazioni ufficiosamente smentite dal Pentagono, che ha comunque rivendicato il diritto a perseguire i ricercati senza limiti o frontiere.

«Chi ha rapito mio padre parlava il dialetto libico», ha affermato il figlio di Abu Anas testimone del sequestro. Per i media statunitensi, l’operazione è opera delle Navy Seals, le stesse forze speciali Usa che hanno catturato e ucciso Osama bin Laden, con la Cia e l’Fbi. Abu Anas sarebbe stato portato a bordo della San Antonio, nave da guerra dell’Us Navy di stanza nel Mediterraneo, per essere interrogato: secondo il copione delle rendition. «Ormai è un detenuto degli Stati uniti», ha dichiarato il segretario americano alla Difesa Chuck Hagel, precisando che il raid era stato approvato dal presidente Obama.
Amnesty international ha denunciato la cattura di Abu Anas, perché «viola i principi fondamentali dei diritti umani», e ha chiesto al governo americano di «confermare immediatamente il suo luogo di detenzione, fornirgli l’accesso a un avvocato, a cure mediche e permettergli di contattare la famiglia».

Tripoli fa la voce grossa, ma per un governo a sovranità limitata messo in sella dalla Nato a suon di bombe, è difficile evitare il grottesco dell’apparire complice o insignificante. La Libia «liberata» da Gheddafi è quotidianamente umiliata dalle milizie armate che si contendono il territorio, e suscitano allarme negli Usa. Ieri, mentre il governo libico minimizzava la portata di un ultimo attentato compiuto a Bengasi davanti all’ospedale al Jala, il Pentagono ha fatto sapere di aver inviato un numero imprecisato di marine dalla Spagna alla base di Sigonella: inizialmente si è parlato di 500 uomini, o comunque di oltre 200. Un’operazione militare non proprio di routine, che rilancia il dibattito sull’utilizzo della base siciliana. Intanto governo italiano e parlamento tacciono.

Sulla testa del 49enne che viveva tranquillamente nel paese da due anni, c’era una taglia di 5 milioni di dollari. Era fra le persone più ricercate dall’Fbi, accusato di complicità negli attentati contro le ambasciate nordamericane in Tanzania (11 morti, 70 feriti) e in Kenya (213 morti fra cui 12 statunitensi) nel 1998. Poco graditi ai tempi di Gheddafi, molti radicalisti islamici hanno lasciato il paese negli anni ’90 per stabilirsi in Afghanistan o in Iraq, dove sono entrati in contatto con al Qaeda e poi sono rientrati in Libia nel 2011. Aver combattuto a fianco dei ribelli libici gli ha dato voce in capitolo. Forti dell’arsenale militare accumulato, hanno formato milizie armate e campi d’addestramento per giovani libici o stranieri da inviare a combattere in Siria. Questi gruppi sarebbero diventati così potenti da non aver bisogno di affiliarsi ad al Qaeda, preferendo seguire i propri emiri locali. Al gruppo salafita Ansar al-Sharia, ben radicato nell’est del paese, è attribuito l’attacco al consolato Usa a Bengasi dell’11 settembre 2012, costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens e a tre statunitensi.