Una mattina del 1974, dalle 8 fino alle 2 del pomeriggio, alla Galleria Morra di Napoli Marina Abramovic presentava al pubblico settantadue oggetti (tra cui una rosa, una piuma, del miele, un pezzo di pane, delle forbici, uno scalpello, una pistola e un proiettile) da usare a piacimento sul suo corpo mentre posava in piedi, immobile, vestita di T shirt e blue jeans neri. Dopo circa tre ore di esitazione e imbarazzo, il pubblico si scatenò: le tagliarono i vestiti, qualcuno la fece sanguinare e bevve il suo sangue, altri cominciarono a ferirla, uno le fece impugnare la pistola col proiettile dirigendola alla sua tempia. Nacquero due fazioni, una per proteggerla e l’altra per infierire. Cominciava così l’esplorazione più estrema del corpo e della mente che artista contemporaneo abbia condotto, in quel «dialogo di energia» col pubblico che la Abramovic ha sempre rivendicato come filo conduttore della sua ricerca espressiva e conoscitiva. Internet non esisteva ancora e la performance era davvero evento, legato all’hic et nunc.

A quarant’anni di distanza tre cose almeno sono cambiate: l’artista offre partecipazione anziché scandalo, l’invito alla concettualizzazione interpretativa è esplicito e la cura formale torna principio estetico. L’esperienza non si consuma, ma ti avvolge, si estende, si espande e ti cattura: più che trasformarti, ti esorta a portarla con te. Sul chronos prevale il kairos, al tempo lineare subentra il tempo assoluto e il passaggio è abbandonato a favore della rivelazione. Tre ambienti spaziosi e bianchissimi, con illuminazione artificiale, accolgono il visitatore a fare esperienza del vuoto, del silenzio e del movimento nella sua nuova performance alla Serpentine Gallery di Londra (Marina Abramovic: 512 hours, ingresso gratuito, fino al 25 agosto). Potrebbe succedere tutto o nulla, come quella mattina napoletana del 1974, ma ormai lo spazio conta più dell’evento, a differenza di allora: gli spettatori vengono presi amorevolmente per mano dalla stessa Abramovic o da assistenti vestiti di nero, femmine e maschi, tutti giovani, belli, simpatici e accoglienti, che bisbigliandoti all’orecchio ti guidano a muoverti lentamente, o a camminare all’indietro con uno specchio in mano, o a sentire il tuo respiro seduto a occhi chiusi davanti a una parete immacolata.

Se l’esperienza è trance e meditazione, l’evento svapora e la riflessione prevale. Di qui il corto circuito tra corpo e mente che porta alla valorizzazione delle dimensioni concettuali e formali. Il nulla come spazio (corporeo) dell’infinitamente possibile, ma anche come condizionamento (mentale) ineludibile ai fini della regola che gestisce le relazioni dentro quello spazio: se le soluzioni sono tutte aperte, le coordinate esteriori le definiscono e determinano. Non si corre e non si grida: né ci si prova o si dà scandalo. Perché l’arte richiede una forma che contenga il caos e lo spettatore trasformato in opera è un pezzo della composizione anziché un soggetto della performance. L’artista gestisce lo spazio molto di più di quanto lo spazio liberi l’azione: in questo, nel dominio assoluto dell’artista sull’opera, che non è testo, ma creazione, la discontinuità con quarant’anni fa è davvero impressionante. Dall’estremizzazione del vitalismo alla ricerca di perfezione per l’eternità: siamo giunti alla fine della body art? Certo è che, divenuta monumento a se stessa, Marina Abramovic corre il rischio – l’orrore di tutte le avanguardie – della classicizzazione – ma forse anche la loro segreta ambizione. Lo sottolineava quasi duecento anni fa un altro genio proclamato tale per essere subito assorbito in una dimensione canonica e magistrale, anch’egli grandissimo esploratore dello scandalo della mente di fronte al corpo, Giacomo Leopardi: «È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e universale, diventino classici».

Se non può più provocare, tuttavia, perché tutto è già dato e ormai scontato e a disposizione senza filtri, l’artista può ancora e sempre stupire: creare meraviglia e ammirazione, riportando l’estetica al centro dell’arte dopo le derive dei domini politico ed etico. Estetica è infatti la dimensione di questa performance, nella quale l’assunzione dello spettatore nell’orizzonte dell’opera, invece di soggettivizzarlo come protagonista dell’evento, lo oggettivizza come parte in causa. La conseguenza è entusiasmante: investito della responsabilità di essere elemento strutturale e strutturante, lo spettatore punterà all’integrazione anziché alla dissoluzione, leggendo l’opera anziché subirla o possederla, che è lo stesso. Quando l’arte è esperienza anziché evento, diventa riflessione sull’arte ed estetica in fieri.

Il critico del Guardian, Adrian Searle, recensendo la mostra ha scritto che ormai il lavoro di Marina Abramovic è «essere Marina Abramovic», una star mediatica che ha fatto di tutto, una fiction ella stessa, sfuggente e improbabile, che ha persino recitato in un’opera sulla propria morte. Eppure, stavolta come in passato, non si può giudicare dalle due, tre o cinque ore trascorse lì: l’opera non si chiuderà che al compimento della cinquecentododicesima ora. Trasformata in un’attesa, quasi un rito di preghiera, intimistica, meditabonda, contemplativa e auspicatrice, quella che poteva sembrare un’esplorazione del monadismo e della relazione, la solitudine dei corpi e il loro modo d’interagire nello spazio, diventa progressivamente una ricerca religiosa, come se il confine potesse essere superato solo nella visione, in un’estatica contemplazione dell’insieme che dà finalmente senso dopo la parcellizazione e la temporalizzazione dell’esistere. Qui l’estetica del vuoto come spazio della potenzialità viene infine superata in un abbraccio che tutto coinvolge e tutto assimila: amore universale e sacrale, che allucina, rallenta e approfondisce. E-mozione è del resto, etimologicamente, ciò che viene fuori dal movimento: riducendolo e meditandolo, l’emozione sarà colta più in profondità e più intensamente, fino a diventare, al rallentatore, immersione e assoluto dell’emozione stessa.

«Niente può essere più evidente del fatto che il poeta è poeta solo quando si veda circondato da figure che vivono e operano davanti a lui, e di cui egli scorge l’intima essenza», scriveva Nietzsche nella Nascita della tragedia, in un passo che è stato associato alla grande performance dell’Abramovic al MOMA di New York nel 2010, The Artist is Present, che consisteva nel far sedere a turno gli spettatori di fronte a lei immobile, separati da un tavolo, fino alla loro resa, con l’obiettivo di esplorare la relazione tra l’artista e il pubblico, la sensazione e l’emozione, l’oggetto e il soggetto, in un’osmosi costante dei ruoli. L’utopia del gioco che tutti coinvolge, senza più ruoli, in un atto d’amore e abbandono infiniti all’altro, attraverso «l’impulso a trasformare se stessi» e a «parlare trasfusi in altri corpi e anime», era l’essenza, in fondo «semplice», del «fenomeno estetico» secondo il Nietzsche di allora: liberato dal puro dionisiaco e regolato da rapporti apollinei, Marina Abramovic ce lo riconsegna, il fenomeno estetico, nella sintesi tra visione allucinata e forma regolata, intuizione e comunicazione, estasi e incontro. Tutti potranno essere artisti, se porteranno l’io a un incontro col mondo esteriore senza mediazioni, ma anche rispettando le convenzioni che la relazione in quanto tale impone.