La prima edizione americana di Conclusive Evidence, l’autobiografia cui Vladimir Nabokov avrebbe poi cambiato il titolo in Speak, Memory, recava come sottotitolo A Memoir. Ricostruendo la storia della propria famiglia, il futuro autore di Lolita si affidava più che altro alle sue sensazioni e presentava al lettore una possibile interpretazione dei fatti fondamentali della propria vita.

Una certa analogia con quel testo la ritroviamo nella ricostruzione della memoria familiare e storica del XX secolo fatta dalla poetessa e saggista Marija Stepanova, Memoria della memoria (attenta traduzione di Emanuela Bonacorsi, Bompiani, pp. 460, € 22,00), un’opera polifonica di netto impianto dostoevskiano, in cui l’autrice, per dare voce al passato, si affida ai documenti, alle lettere, alle foto dei suoi parenti defunti, utilizzando lo strumento dell’analisi antropologica, della teoria del trauma, del concetto di post-memoria.

La sua lingua abile, scorrevole, costruita da elementi diversi come in un patchwork variopinto, semplice e sofisticata insieme, approda a un misto avvincente di narrativa e saggistica, un metaromanzo che è al tempo stesso storia d’amore, resoconto di un viaggio, riflessione sulla fotografia.

Per Stepanova, l’enorme e caotico archivio di una zia molto amata, dove si trovano mescolati lettere, appunti privati (con nulla di personale), ritagli di giornale, oroscopi, costituisce il punto di partenza per una singolare ricerca nel passato. Nelle prime due parti del libro, la corrispondenza di familiari defunti si mischia ai documenti, mentre intorno l’autrice allestisce il montaggio di fotografie, oggetti quotidiani non soltatanto descritti ma mostrati, trascritti, inglobati nel suo testo, evidentemente perché Stepanova non confida nell’autonomia narrativa delle immagini.

Esaminando i materiali raccolti nell’archivio di famiglia, si rende conto che non sono sufficienti e che è necessario visitare i luoghi dove sono vissuti e morti i suoi antenati: dà inizio, così, a una sorta di pellegrinaggio, da Parigi, a Saratov, a Cherson, negli Stati Uniti, dove va per chiedere aiuto a chi è in grado di rispondere alle domande lasciate evase dalla memoria. Ma a volte le risposte traggono in inganno: a Saratov, per esempio, Stepanova crede di riconoscere suoni, odori, voci appartenenti al cortile della casa dove hanno vissuto i suoi bisnonni, ma scopre poi di avere sbagliato il luogo. Sulla domanda relativa a cosa sia la memoria si concentra dunque la seconda parte del libro, dedicata a una serie di saggi su Mandel’stam, Sebald, Rafael Goldstein, Francesca Woodman, Charlotte Salomon, mentre la terza parte ruota intorno alla figura della bisnonna Sarra Ginzburg: da una foto datata 1905 apprendiamo che la chiamavano Sarra sulle barricate.

Era laureata in medicina alla Sorbona, aveva attraversato due guerre, l’evacuazione, le malattie di figlia e nipote ed era scampata al «complotto dei medici ebrei», grazie a un ictus. Nelle lettere e cartoline, scambiate con i compagni di lotta, con le amiche, con il futuro marito Michail Fridman, si alternano crudeltà e dolcezza, mancanza di compromessi e sofferenza. Curiosamente, la componente ebraica della rivoluzionaria Sarra Abramovna Ginzburg traspare da quello che manca nelle sue lettere, dove balena qua e là il latino, la lingua delle diagnosi, il francese, il tedesco, ma mai l’yiddish, la lingua del mondo familiare e però anche dell’esilio e dell’umiliazione, che compare in un unico caso, messa fra virgolette e parentesi, come nella bacheca di un museo.

Intanto, fra le pagine del libro, le persone scompaiono progressivamente, gli oggetti perdono il loro significato, si deteriorano, perdono braccia e gambe, come le bamboline di porcellana bianca, di poco valore, corruttibili, che compaiono sulla copertina del libro, e che sono il vero aleph della narrazione: una grande metafora delle guerre del XX secolo.

Incontro Marija Stepanova nel suo bell’appartamento moscovita nel centrale quartiere di Kitaj Gorod, proprio quello in cui è nata e a cui la legano i ricordi dell’infanzia. La sua figura alta ricorda la giovane Anna Achmatova nel ritratto di Natan Al’tman, porta sul pullover nero una spilla d’oro, un ricordo di famiglia, regalo del bisnonno alla bisnonna in occasione del loro matrimonio, con incise le iniziali di entrambi e la scritta «al destino non si sfugge». Al suo destino di custode delle memorie familiari, Marija non ha mai pensato, in effetti, di sottrarsi.

La sua non è una cronaca familiare, bensì un saggio su avvenimenti reali: lei lo chiama, con una leggerezza che contrasta con la ponderosità del libro, «romanza»: perché?

In russo il termine «romanza» allude a varie sfere semantiche: non solo opera musicale, ma anche performance vocale leggera, e – ovviamente – storia di un amore senza scampo, perché rivolto ai morti, che non possono rispondere. D’altronde, l’elemento musicale è importante, c’è un capitolo dove si parla del fatto che il ricordo diventa uno spartito che nessuno canta più, frammento di memorie altrui, testi che qualcuno ha ricopiato a mano. Il mio è un tentativo di guardare da un’altra angolatura l’usuale nomenclatura dei generi: nella tradizione letteraria russa è praticamente obbligatorio chiamare le cose come non si dovrebbe, almeno da Gogol’ e dal suo poema Le anime morte, che è in tutto e per tutto un romanzo. Memoria della memoria è un Bildungsroman, la vicenda di una crescita e della scoperta del proprio posto nella storia comune, ma anche un libro di viaggio, dove l’eroina se ne va per il mondo in cerca delle tracce dell’esistenza dei suoi cari e trova tutto tranne ciò che cercava.

Lei è sia poetessa sia saggista, presupposti che non garantiscono affatto la riuscita di un grande romanzo. Il poeta concettualista Dmitrij Prigov diceva a proposito di ciò che si attende da un libro: «Voglio che… ci sia una nuova idea, che l’autore mi proponga un nuovo modo di costruzione del testo». Le sembra di essere riuscita a realizzare questi risultati nel suo romanzo?

Lo scopo che, in realtà, ha determinato la costruzione del libro e la sua articolazione, potrei riassumerlo così: immagini un messo che deve far pervenire un’ambasceria orale, scopo per il quale sono state elaborate varie tecniche mnemoniche, capaci di far sì che se una parte dell’informazione sparisce, le altre siano in grado di ripristinarla. Così è andata anche per la storia della mia famiglia, che ho cercato di raccontare: era piena di buchi, silenzi, lacune. Come si fa a ricostruire i nessi perduti, mi sono chiesta, come fare a mimare il problema del messo e della sua ambasciata? Il mio libro – che a volte sembra una scatola, una bacheca, la vecchia vetrina di un museo, dove piume, uova, punte di frecce e giocattoli sono messi dietro lo stesso vetro– non è altro che il tentativo di rispondere a questa domanda. Memoria della memoria con la sua raccolta di lettere, fotografie, ricordi infantili, di storie mie e di altri, di citazioni, è un libro costruito come un sistema spazio-tempo, una istallazione dove da una stanza ad un’altra, da una vetrina a un’altra si può passare seguendo la successione che si preferisce. Per me, marca più semplicemente un luogo dove vivere.

«Memoria della memoria» è uscito con una grande tiratura, ha vinto più premi, fra cui quello nazionale russo, è stato tradotto in quindici lingue nonostante sia un’opera complessa che richiede al lettore uno sforzo particolare: come se lo spiega?
Ho ancora il quaderno in cui cominciai a scrivere quando avevo dieci anni, e sono andata nella stessa direzione per oltre trenta anni, come gli eroi delle favole russe; poi, quando ho finalmente cominciato a scrivere, non ho pensato a come rendere la narrazione avvincente o appassionante: mi interessava solo la precisione, l’armonia del sistema generale. Un po’ come Brodskij in In Fuga da Bisanzio, anch’io ho voluto compiacere le ombre. D’altronde, le narrazioni documentali sono di grande attualità, è radicalmente cambiato il rapporto con il passato, con la memoria familiare, con quanto è rimasto delle persone e delle cose. La memoria sta diventando quasi l’oggetto di un culto secolare, e questo è al tempo stesso nuovo e datato: l’insicurezza per il domani spinge a cercare rifugio nel passato, a organizzare la politica odierna secondo esempi antichi, a ripristinare diverse versioni dei tempi perduti.

Non a caso, il titolo che lei ha scelto rimanda a un necrologio, e già nei versi di «Kireevskij» e nei saggi di «Davanti ai sepolcri» le voci dei morti risuonavano spesso. Nel discorso che ha preparato per il premio «LericiPea-Mosca» nel 2011, ha detto che «la poesia non è niente di diverso dall’orazione pronunciata ai propri funerali». Cosa intendeva?
Mi riferivo al fatto che la peculiarità della poesia è quella di convincersi della propria impossibilità: morire insieme a ogni poeta e risorgere e rinascere di nuovo a ogni nuova pratica poetica. E anche, certo, intendevo dire che solo la parola, solo la lingua sono in grado di seppellirsi e di piangere la propria morte. Il pianto funebre è una funzione naturale della poesia, i primi versi che furono scritti erano epitaffi. La continuità nel tempo dei versi fa risuonare la parola umana, la fa durare a lungo, addirittura per secoli dopo che il corpo dell’autore, e persino il suo nome, hanno cessato di esistere. Non so se ci sia, in questa situazione, più disperazione o più speranza.

Gli eroi della cultura mondiale formano, in «Memoria della memoria», una complessa costellazione, un sistema artistico a sé stante, che funziona grazie al fatto che tutti loro hanno in un modo o nell’altro riflettuto sui problemi che turbano la sua voce narrante, e hanno proposto delle soluzioni. Sono citate le scatole di vetro di Joseph Cornell, con il loro contenuto fiabesco, le tempere e i manoscritti di Charlotte Salomon, l’aspra discussione a distanza fra Marina Cvetaeva e Osip Mandel’štam sulla conservazione del passato o sul suo rifiuto sdegnoso. Ma, in generale, la cultura russa ha nel suo libro un ruolo marginale: come mai?
Davvero le sembra così marginale? Me lo hanno chiesto già durante le presentazioni del libro in Germania, a volte con una sfumatura di rimprovero. Io non condivido questa opinione, e non solo perché il soggetto principale del libro è la storia della mia famiglia, del modo in cui i suoi componenti – russi e ebrei, quasi tutti nati e morti in Russia – hanno vissuto, di come si sono inseriti nel contesto storico e culturale del secolo, di ciò che hanno saputo o ignorato, l’aria che hanno respirato, le canzoni che hanno ascoltato e i versi che sono stati scritti (e non sono stati pubblicati, come le poesie moscovite di Mandel’štam). Ma anche per un altro ordine di considerazioni sostanziali: la cultura russa non è mai stata un sistema chiuso, un’isola che viveva per conto suo, staccata dal resto del mondo. Nel mio libro racconto la Parigi all’inizio degli anni Dieci del Novecento, dove lungo lo stesso viale dei giardini del Lussemburgo, passeggiavano la Achmatova e Modigliani, e descrivo la mia bisnonna Sarra diretta al teatro anatomico e i giovani delinquenti della banda Bonnot. Due strade più avanti Lenin teneva una conferenza sulla situazione politica del momento: è un enorme quadro generale dove piccoli uomini e grandi protagonisti della storia coesistono, dove sono esposti i titoli di tutti i giornali, mentre frusciano le spazzole dei lustrascarpe. Già da tempo, la cultura vive un’unica vita comune, ed è impossibile rinchiuderla dentro le cornici nazionali, fare in modo che i russi scrivano solo di russi, i polacchi di polacchi, i francesi di francesi e così via. Non si può comprendere il XX secolo e le persone che lo hanno attraversato se non si tiene conto della contemporaneità del tutto, dell’invisibile e enorme sistema di conformità che ha interessato tutto e tutti. Mi piacerebbe pensare che il mio libro possa costituire un possibile territorio per mostrare questa contemporaneità. Non ho mai creduto nell’esistenza dell’enigmatica anima russa e nemmeno nel fatto che la nostra sofferenza, il nostro trauma collettivo, il nostro modo di pensare sia diverso da quello di tutti gli altri, per cui per capirlo lo si deve analizzare al di fuori del contesto generale, servendosi di strumenti speciali.