Marija Kavtaradze è nata in Lituania, il Paese del cinema di Jonas Mekas e di Bartas, rispetto ai quali lei però sembra cercare, giustamente, una propria strada. Ci riesce , e con successo visto che questa giovane regista viene considerata tra le più talentuose della sua generazione. Slow, il suo secondo film, presentato al Sundance, racconta una relazione che si scontra con una barriera: come si può resistere alla dichiarazione di asessualità di uno dei partner? La protagonista è una danzatrice, che incontra un uomo, interprete nella lingua dei segni; si piacciono ma lui le confida che non ha nessuna attrazione sessuale. «Volevo raccontare una storia d’amore, avevo questi personaggi in mente fin dall’inizio, il loro è un incontro che apre molti interrogativi. E sono proprio questi che mi hanno portata al film» dice Kavtaradze.

Le professioni dei due personaggi sembrano narrativamente importanti, in modo diverso: lei come danzatrice, lui come interprete nella lingua dei segni, riguardano una fisicità.

Era importante per me mettere il corpo al centro della storia, la danza è sicuramente un veicolo per farlo, mi piace molto, ha un aspetto poetico e realistico. E mi ha permesso di dare al personaggio di Elena una apertura nel modo di comunicare rispetto al resto del mondo. Anche se sono molto attenta alla sceneggiatura, una volta che l’ho messa a punto come desidero, non mi piace procedere in un modo troppo organizzato. Per arrivarci ho bisogno di pormi molte questioni. Così anche se l’asessualità del personaggio maschile può apparire il centro della narrazione in realtà non lo è, non mi sono focalizzata solo su questo aspetto, ho cercato di lavorare su una gamma di sentimenti più varia.

La scrittura quindi è un punto di arrivo importante.

Seguo la sceneggiatura, per arrivarci però cerco sempre di seguire più piste. Anche con gli attori lavoriamo molto, mi piace che raggiungano una intensità nelle emozioni. Non c’è sempre tempo o possibilità di far improvvisare, ma quanto rimane di certi dialoghi nelle prove a volte lo mantengo. In questo film ho avuto un po’ più di budget, grazie alla coproduzione. In questo caso ho provato a immaginarmi le loro vite, visto che il film è ambientato a Vilnius, dove abitavano, che vestiti indossavano, quanto spendevano di affitto. Credo che sia importante dare uno spessore reale ai personaggi senza strafare nelle rappresentazioni ma rendendoli appunto delle persone in cui ci si può riconoscere. E forse anche per questo ho scelto due figure un po’ più adulte, non volevo la storia d’amore di due adolescenti.

È difficile per un giovane avere la possibilità di fare un film in Lituania?

Credo un po’ come ovunque… Non è facile da nessuna parte almeno a quanto capisco parlando con altri colleghi nel mondo. Dopo la pandemia, che ha reso le economie del cinema molto fragili, per fortuna a Vilnius il pubblico sta tornando in sala. Io stessa ho fatto un po’ fatica all’inizio.