Che cosa è un’identità. “C’est rien”. È niente, qualcuno dice a un certo punto nel documentario di cui stiamo per raccontare. Può essere considerata niente, meno di zero, se provieni da luoghi sbagliati e impossibili, se sei statoa risucchiato dallo schema dell’“umanità respinta relegata”. Niente, solo una vita tremolante tra tante in fuga su un barcone. E ancora senza sosta da un luogo provvisorio all’altro (senza più casa né affetti personali). Ti chiedono di dimostrare chi sei o invece ti forzano a dimenticarlo, stordendoti con ogni sorta di sostanze non “identificate”. Una vita che potrebbe non esserci più da un momento all’altro. Che cosa la distingue dalle altre. Dai tanti piedi scalzi scampati e smarriti. Dalle altre morti che tra poco ci saranno, dagli abiti senza più odore sparsi sul fondo del mare, un numero che cambia ma ossessivamente è solo un numero, ancora niente che dice chi sei, niente di unico, appunto.

Eppure. Identità può essere anche una pelle che metti per coprire la tua, allora puoi dire di essere un ebreo che davvero hai conosciuto un giorno in carcere, o ancora un palestinese dal nome che hai inventato, o semplicemente “Alias” … quando ti chiedono come ti chiami. Puoi essere Altro, altro da te, se questo ti serve a salvarti, a passare una frontiera, a prendere aria. Le bugie che dici hanno sempre una parte di vero: se menti sempre, rischi di conoscere la follia … Sono filosofiche, aperte, dense di punti di fuga e di domanda, le riflessioni pirandelliane e contemporanee di Djilali Kerroum, l’uomo che è il cuore del documentario di Marie Moreau, Une partie de nous s’est endormie, lo scorso dicembre al Festival dei Popoli a Firenze (premio per il miglior mediometraggio), e in questi giorni a Aix-en-Provence a La 1ère Fois, nella rassegna che segnala documentari opere prime degne di nota.

Di origini marocchine, poi emigrato in Francia, espulso a 18 anni, rientrato in Marocco, quindi in costante peregrinazione verso l’Europa, tra la tossicodipendenza, il carcere, i periodi di isolamento (“senza nemmeno le sigarette”), le disintossicazioni, i centri per migranti e la casa di cura sociale per senzatetto ad Avignone – dove incontra la realizzatrice del doc – ecco, Djilali viene verso di noi dal buio, mentre la luce ondivaga dell’accendino illumina a tratti il suo volto senza età, il suo sorriso rosicchiato dalla vita, “cerco la mia identità … a ognuno prima o poi capita di metterla in discussione, la mia si è frantumata”. Per lui “la Divina Commedia è tutti i giorni” e la rilegge, le parole dal carcere di un uomo controverso e inquietante come Jacques Mesrine, a lungo “nemico pubblico numero 1” di Francia, sono antidoti da recitare a memoria contro l’oblio delle violenze vissute in prigione.

E se, come dirà acutamente la regista nell’intervista che segue, è solo la parola, il racconto di sé che salva dall’indistinto e se questo ha senso solo se c’è almeno una, uno in grado di accoglierlo – nell’ascolto nel silenzio e nel rispetto profondo – ecco allora che Marie (artista con una vita segnata dalle erranze), per Djilali sarà quell’una. “Non una amicizia, né una storia d’amore, ma altro, lo spazio continuamente rielaborato di una relazione tra due persone e il cinema”. Senza dire di Avignone, col suo teatro a cielo aperto, le sue stradine di sole e ombre, di luce giallastra e sensi vietati, col suo festival che les intermittents riuscirono a fermare, Avignone come il Maghreb, il Medio Oriente o altrove … Lì Djilali le racconterà i suoi sogni di cani e di coltelli, sogni in cui la salva dall’annegare, lì Marie lo cercherà, lo perderà, lo aspetterà in momenti fatti di soli adesso … mentre un filo intangibile li unirà, come danzando … Allora lei sarà realizzatrice “in filigrana”, una voce sottile fuoricampo, ma forse anche altro. La prima volta avverrà come passarsi la sigaretta e Djilali comincerà a riprenderla (ma questo non farà parte del montaggio finale), la seconda invece le chiederà la camera espressamente, allora la vedremo, capelli rossi e sguardo determinato intento, mentre cammina verso di lui per fargli un’altra domanda … Lo stesso modo in cui, adesso, la rivedo anch’io, in questa nostra lunga conversazione cominciata da una risonanza già a fine proiezione a Firenze …

Vogliamo riaffacciarci sul momento in cui hai incontrato Djilali?

L’esca del nostro incontro è stata la notte. Era inverno. Djilali era appena uscito dal carcere e era abbastanza calmo. Per lavorare al film ero stata accolta nella sua stessa casa di cura sociale. Non dormivo, non dormiva: abbiamo cominciato a condividere le nostre insonnie, le preoccupazioni. Leggevo molto sui sogni, soprattutto Una nuova interpretazione dei sogni di Tobie Nathan, dove si descrivono tecniche di interpretazione dei nostri antenati. Volevo fare un film sui dedali della vita, sull’erranza. Ma volevo anche che il film si costruisse come un dedalo, anche temporale. Lui sognava intensamente, si ricordava pure i sogni dell’infanzia, dell’epoca in cui era stato espulso dalla Francia e di altri momenti difficili. Ma ascoltava anche i miei sogni …

Come si è fatta strada la decisione di realizzare un documentario con lui?

Djilali sapeva che ero lì per fare un film e mi ha proposto di farne uno sull’usurpazione di identità che aveva subito. Ha passato la sua vita sotto altre identità, quelle dei richiedenti asilo dall’Iraq, da Israele, dalla Palestina. Tutto questo l’ho scoperto camminando per le strade con lui: mi ha trasmesso la sua esperienza a frammenti, senza cronologia, mescolata alla materia onirica. Da parte mia, non ho voluto pressarlo con domande (per esempio non gli ho mai chiesto perché fosse stato in carcere quasi undici anni). Non ci conoscevamo e abbiamo coltivato questa “innocenza”, questo ignoto, nutrendolo attraverso l’immaginazione. Fino a farne una ricchezza condivisa.

Dicevi dei colloqui notturni. Fin dall’incipit siamo catapultati nell’atmosfera densa e cupa della città semideserta. Hai mai avuto un senso di paura?

Certo. E credo che anche lui l’avesse. Per me era come camminare dentro i budelli della città. Pensavo al Minotauro e al labirinto. Era come avanzare sul bordo della notte ma anche degli stessi racconti di Djilali … In seguito, durante la primavera, è stato espulso dal rifugio ed è diventato più borderline. Passava del tempo in ospedale, aveva ricominciato a drogarsi pesantemente. Non potevo più permettermi di andare con lui di notte, ci vedevamo solo di giorno. A quell’epoca la nostra passeggiata è diventata un incentivo al suo risveglio.

Al Festival dei Popoli hai detto che avevi cominciato un progetto con altre persone della casa di cura sociale, ma che a un certo momento hai capito che volevi lavorare solo con Djilali. Perché?

Nel 2008 sono stata ospitata come artista in una C.A.S.A. (Collettivo d’azione dei senza alloggio). È stato lì che ho conosciuto persone che sanno bene cosa sia l’“erranza” e che finalmente in quel luogo “ormeggiano”, riprendono le forze, cominciano a sentirsi al sicuro. Tra loro si parla a mezze parole: sia per i colpi subiti, sia per le droghe e l’alcol, per i trattamenti psichiatrici e loro effetti secondari, sia perché non credono più alla possibilità di comunicare. Quello che viene detto il più delle volte non è percepibile o difficile da comprendere. È in questa atmosfera aberrante fatta di frasi appena udibili di grida di silenzi e di attese che volevo fermarmi, ritrarre questi uomini e queste donne. Volevo capire cosa è quella forza del quotidiano che continua a tenerci in vita anche quando tutto ci lascia: la testa, i nostri cari, la salute. Alla fine tra le 100 e le 200 persone incontrate negli ultimi anni, il mio lavoro si è focalizzato su tre. Con loro per 3 anni abbiamo filmato, parlato, camminato. E poi c’è stato Djilali che ha permesso che lo seguissi nel labirinto dei suoi racconti. Allora ho lasciato le nostre soggettività a conversare. Poi, al montaggio, per una settimana, abbiamo riguardato la mole immane del girato. Ero esausta, non sapevo più come costruire il film. Ho rivisto nella mia memoria tutti i piani sequenza e ho realizzato che non “c’erano” se non quelli con Djilali. Così ho deciso che avrei montato il film solo con lui. Perché il dedalo era lì, in quella relazione.

Le esperienze dell’instabilità, della migrazione hanno mai fatto parte della tua vita o di quella dei tuoi?

Sì, c’è una narrazione familiare legata alla II guerra mondiale, che mi ha segnato. In quanto padre di tre figli – quattro nel ’43 con mio padre -, mio nonno non era stato richiamato. Mio padre stava morendo di fame e mia nonna dovette partire per il Cantal, sua regione natale, per nutrire papà con il latte di vacca. Quando alla fine della guerra rientrò a Parigi, dove mio nonno era rimasto, scoprì qualcosa che la distrusse e volle separarsi dal marito, sebbene non avesse abbastanza denaro per emanciparsi. Mio zio, che all’epoca aveva 16 anni e aveva conosciuto la guerra tra i monti, dove aiutava con i documenti che mio nonno falsificava a Parigi, rimase con sua madre per occuparsi di lei. Io non ho conosciuto quest’uomo ma credo che fosse molto sensibile. In seguito sarebbe dovuto partire per l’Algeria con il suo reggimento, ma rifiutò. All’epoca gli obiettori di coscienza non esistevano e quindi è stato considerato malato, cosa che credo abbia destabilizzato il suo equilibrio. Anche se secondo alcuni è stata la dissoluzione della sua famiglia. Era solito dire: la guerra distrugge le famiglie … Ha passato la vita a scappare dall’esercito francese : con la moglie si è spostato in Danimarca, in Guinea e, dopo l’indipendenza, in Algeria. In ogni paese hanno avuto un figlio, e ho 4 meravigliosi cugini. In seguito l’obiezione di coscienza è stata riconosciuta e ha potuto rientrare, ma ormai mentalmente stava male e credo abbia vissuto a lungo per strada.

Atroce come la guerra abbia comunque influito su tutta la sua esistenza sebbene lui l’avesse rifiutata strenuamente. E la tua esperienza?

A lungo, per ragioni economiche, ho vissuto occupando e sono stata cacciata a più riprese. Frequentavo una scuola d’arte e amavo l’arte fortemente, ma avevo scoperto che era stata risucchiata dal mercato. Allora ho cercato una fuga attraverso forme ibride tra arte e politica. E lo stesso ha fatto mia sorella che lavorava con ragazzi di strada. Infine ho incontrato il C.A.S.A., la prima istituzione che accoglie le pratiche artistiche lasciando gli artisti liberi di fare …

Hai avuto un contatto prossimo con la sofferenza di Djilali. L’hai mai sentita come insopportabile?

Allora non ho mai sofferto, ma dopo sì. Mi sono ammalata e adesso è Djilali a prendersi cura di me … Credo che durante le riprese, mi proteggessi, ogni qualvolta la sofferenza si faceva troppo vicina, mi appigliavo ai dettagli dei sogni. Rispetto al dolore sono impotente, anche se ci sono punti di fuga a cui possiamo cercare di connetterci. Quando invece ho compreso il ruolo giocato dai trattamenti psichiatrici, non ho provato sofferenza ma rabbia. Apparentemente si tratta di persone forzate a uno stato di addormentamento perché non soffrano e si riposino. Ma in realtà li si addormenta soprattutto affinché non piangano non si ribellino non raccontino più. È una moltitudine di individui traumatizzati a cui offriamo una realtà chimica surrogata. I farmaci propongono un “quadro” artificiale su cui malgrado tutto si costruisce un rapporto col mondo. Senza questi “quadri” qualcosa sfugge e genera angoscia. Ma forse è semplicemente la noia, non so …

Vedendo il film, si ha la sensazione di una danza tra Djilali e te, di un dialogo filosofico. In che modo questo fa parte del tuo interpretare il documentario? Hai autori per te importanti in questo senso?

Se devo il mio lavoro a qualcuno è a Pedro Costa. Lui mi ha aperto gli occhi e il cuore sulla possibilità di fare un film che inviti a vivere con realtà che solitamente, per paura di esserne contaminati, si tende a stigmatizzare o a rendere caricaturali. Penso a Vanda, al ritratto che fa di questa donna (tutto girato ne La stanza di Vanda, giovane tossicodipendente a Lisbona, ndr). E penso alla relazione tra lei e il regista, al minuscolo spazio tra loro. Ma cruciale per me è stato anche Antigone (tratto da Brecht), di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, in particolare una frase del corifeo a Creonte, che mi è tornata in testa come un ritornello che non sempre comprendo: “Non gettarlo troppo in basso/ Così che più tu non lo veda /Giacché laggiù, e sul fondo /Arrivato, giace nudo ma sicuro. Della vergogna /Si spoglia affatto; tremebondo e tremendo /Rialza il capo il reietto; e disumano rammenta /L’antica figura già vissuta, e rinnovato si leva”.

Parli di identità e di trattamenti psichiatrici a persone che non si possono difendere.

I trattamenti psichiatrici sembrerebbero essere l’ultimo baluardo della nostra cittadinanza, ma io non lo credo. La parola è il cuore del nostro essere cittadini. Senza siamo perduti. Raccontarsi è rivestire di sé la propria identità: per quanto povera sia, attraverso il racconto diventa ricchezza. Walter Benjamin afferma che la prima guerra mondiale è stata una catastrofe anche perché al ritorno dal fronte i reduci non potevano più parlare. Una storia di uomini, questa, di potere degenerato, che si ripete ancora. Un mio amico che è psichiatra combatte perché lo spazio della parola sia rispettato. Sostiene che la malattia esiste se la si considera tale e che, attraverso una relazione di fiducia e di ascolto, è possibile aprire varchi ai muri mentali. Lavora in carcere e spesso le guardie carcerarie lo portano a forza dai detenuti perché prescriva loro dei farmaci. Lui allora si esaspera. Ogni volta la fiducia che aveva costruito è distrutta, la parola scompare. E con lei la possibilità di emancipazione.

A proposito di emancipazione dal tempo, Djilali parla di “momenti”. Cosa ha significato per te?

Bisognerebbe domandare a lui. Perché è lui che ha individuato questa “pausa” estetica. Secondo me anche perché ha compreso qualcosa di essenziale del cinema: l’immagine tempo. Con in più la cifra del documentario: la relazione tra chi filma e chi è filmatoa. Montando con Françoise Tourmen, abbiamo strutturato il film proprio così, per momenti. Questo è il cinema che voglio fare, un cinema in cui ho il tempo di guardare e ascoltare quello che mi scaturisce dentro, e lo stesso può fare chi guarda. Non c’è inizio né fine. Solo tableaux passaggi e labirinto.

Qualche parola per te: tunnel tenebre luce sottile angeli.

È attraverso la luce che ci accostiamo a Djilali ma anche alla nostra relazione. A Marsiglia un regista mi ha detto che trovava che nel film ci fosse dell’angelismo. Questo ha innescato una riflessione comune. Per alcuni rappresenta la redenzione, qualcosa che credo appartenga al mio film, specie pensando al legame tra Djilali e la Divina Commedia. Altri hanno parlato di innocenza, del guardare al mondo con occhi incontaminati. In seguito, al Festival dei Popoli, una donna ha detto di aver visto nel film un angelo. Questo mi ha sorpreso perché mi ero interrogata in proposito e a Firenze ero stata a vedere gli angeli nei musei e nelle chiese (la città ne è piena). Attualmente invece sono scomparsi dalla rappresentazione religiosa. Ma poiché si tratta anche di entità spirituali oltre che culturali, mi sono chiesta attraverso quale identità sopravvivano nel nostro mondo. Gli angeli sono portatori di un messaggio dall’aldilà, dunque sono degli intrusi. Botticelli, per esempio, li rappresenta sempre in apnea, col viso blu. Pure seminano presso di noi. A proposito del cinema di Bela Tarr, che amo molto, Jacques Rancière dice che nei suoi film rappresenta il diavolo, e questo grazie a un movimento circolare della macchina… Ma il diavolo di nuovo è un angelo …

Qualcosa sul titolo del documentario, Djilali dice che vuole dormire una settimana, essere assente dalla vita. Credo che in molti possiamo capirlo. Allude ai pesi dell’esistenza, a ciò che poteva andare diversamente …

Ho cercato a lungo un titolo. E ce ne sono stati diversi. Une partie de nous s’est endormie è un titolo paradossale. Significa che una parte di noi, del nostro essere sociale, si addormenta quotidianamente in modo artificiale o forzato. E che questa parte di noi richiede anche quell’oblio di cui parla Djilali alla fine del film. Ma questo titolo contiene anche tutte le esperienze e le identità che dormono dentro di noi. Sempre Walter Benjamin dice che nel sogno c’è anche ciò che ci sveglia. I sogni di Djilali, quelli che ha fatto tramite la sua esperienza, ma anche quelli del nostro lavoro comune, forse ci hanno risvegliato, la notte ci ha donato il riposo ma anche nuove linee di reale che il sonno notturno rimaneggia. Questo è per me il ruolo che l’arte e il cinema giocano nella società. Come la nebbia dei film di Bela Tarr, che finisce per penetrare nei nostri corpi, come la notte ne Il cavallo di Torino, che ci getta nel nero più totale della fine, ma anche della genesi del mondo. Amo i film lenti che si dipanano delicatamente. Anche se si tratta della violenza del mondo, tutto questo si può vivere dolcemente e risvegliarsi tranquillamente in questo mondo che è il nostro.

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