Forse non è un caso se i fantasmi sono presenze così care a Javier Marías, né si direbbe che a giustificarne la reiterata comparsa basti la loro intrinseca allusione a mondi perduti; e neppure il rapporto privilegiato che intrattengono con il passato letterario rende conto, peraltro, della loro speciale fisionomia. Tra le pagine di Tutti i racconti (traduzioni di Glauco Felici, Valerio Nardoni, Maria Nicola, Paola Tomasinelli, Einaudi, pp. 424, € 21,00) ora raccolti dallo scrittore spagnolo e ripartiti in «Accettati» e «Accettabili», sembrerebbe piuttosto che a connotare questi fantasmi sia il loro carattere di eventualità, dunque la loro parentela con la categoria del possibile, da sempre prediletta da Marías.

Analisi di un rituale
Chi ha familiarità con i romanzi di questo scrittore, forse il solo europeo ancora attivo a meritare il Nobel per la letteratura che verrà assegnato fra pochi giorni, sa quanto spazio occupino le sue congetture sui diversi esiti che una stessa vicenda avrebbe potuto avere se i gesti che l’hanno determinata non fossero stati compiuti in quella sequenza, quanti condizionali controfattuali si affollino sulle sue pagine intorno alle ipotesi già tradotte in fatti, quanto pathos venga speso nella messa a fuoco delle virtualità perdute quando il reale si congeda dal possibile. Sono questi, prima ancora di altri, i fantasmi di Marías, proiezioni in avanti della sua logica più che creature radicate nel passato, sebbene poi la necessità di convertirle in racconto debba assumere, per forza di cose, contorni meno ineffabili.

Il fantasma protagonista di «Le dimissioni di Santiesteban» è decisamente il più simpatico, anzitutto perché non è detto che esista nemmeno nella sua natura virtuale, poi perché, se esiste, agisce in modo da contravvenire immediatamente alla sua eventualità: il suo unico gesto, infatti, pare sia quello di affiggere sulla lavagnetta dell’Istituto britannico di Madrid un foglietto recante le proprie dimissioni, non si sa da quale incarico né per quale motivazione. Il suo è un rituale indefettibile, che si compie esattamente alla stessa ora di ogni sera, tramite una sequenza di atti sempre uguali.

Le indagini del direttore dell’Istituto non hanno portato a nessuna acquisizione di conoscenza circa questo evidentemente indignato Signore di Santiesteban, ma a qualche conclusione arriverà, non a caso, il giovane Mr Lilburn, insegnante appena incaricato, cui viene impartito il compito di cestinare, ogni mattina, la lettera di dimissioni del fantasma, prima che gli alunni possano lasciarsene turbare.

Non in prima persona
Più tradizionale e meno inquietante si presenta il fantasma di un avido ascoltatore delle letture con cui una giovane dama di compagnia intrattiene la sua signora, presenza-assenza avvertita solo dalla ragazza, che gli si affeziona fino a prolungare per lui solo, una volta morta la sua datrice di lavoro, quelle performances a alta voce: compare in «Non più amori» e in «Saranno nostalgie», due titoli per quello che è, a tutti gli effetti, lo stesso racconto, riadattato da Marías nella ambientazione e nella nazionalità dei personaggi, che rese messicani per soddisfare la richiesta di contribuire a un volume i cui proventi erano destinati ai bambini del Chiapas. Modesto nella sua malinconica graziosità, questo racconto è interessante se non altro in quanto eccezione alla scelta di scrivere in prima persona, che contraddistingue le prose di Marías.

Ricordare senza scampo
Quasi sempre dettati da una qualche committenza – festival giornali, riviste, libri d’occasione – questi racconti soggiacciono a alcuni limiti, per esempio l’indicazione della lunghezza o persino del tema e, tuttavia, alcuni di essi sono veri e godibili pezzi di bravura: su tutti, «Quand’ero mortale», datato 1993, che non a caso diede il titolo a un libro di Marías dove erano raccolte altre undici prose, tutte confluite nella raccolta appena uscita. A parlare, ancora una volta è un fantasma: gravato dal peso di ricordi che non può selezionare, assillato da immagini che in vita la sua visione retinica aveva registrato senza iscriverle nella propria consapevolezza, il dolente protagonista di «Quand’ero mortale» ripercorre la parabola della sua ex vita coniugale, conclusa per mano di un sicario, rivivendo come un eterno presente l’inesorabilità dei colpi di martello che gli avevano fracassato la testa.

Scene d’infanzia si sovrappongono alla memoria degli ultimi istanti di vita, interni domestici dove il padre, ex repubblicano con qualche peso sulla coscienza, si lasciava ricattare dal medico di famiglia, amante della moglie nonché madre dell’attuale fantasma. Lui stesso, diventato adulto, avrebbe tradito la moglie, che a sua volta tradirà lui risolvendosi alla fin fine a farlo togliere di mezzo. La scrittura di Marías, amorevole di dettagli, asseconda la psiche dell’ormai fantasmatico personaggio, senza istituire nessi fra il prima e il poi, e limitandosi a registrare quella che chiama «la lama tagliente delle ripetizioni».

Ricordare senza scampo è, per questo fantasma, una dannazione tanto quanto lo era per il Funes di Borges, al quale peraltro nulla lo apparenta, anche perché quello era vivo e il nostro non lo è più: «Quelli che hanno filosofato sull’oltretomba o sul perdurare della coscienza al di là della morte – se è questo che siamo, coscienza – non hanno tenuto in conto il pericolo, o piuttosto l’orrore di ricordare tutto, anche quello che non sapevamo…».

Un diverso genere di inquietudine, derivato da una qualche forma di sdoppiamento, riguarda il reduce da quattro anni di guerra e di prigionia in un campo tedesco, protagonista di «La canzone di Lord Rendall»: ottimisticamente certo di costituire, con il suo non annunciato ritorno, una gradita sorpresa per la moglie, si apposta fuori dalla loro casa e dalle finestre ne spia gli interni, prima di farsi avanti sulla soglia. Quel che vede non gli torna, lo induce a dubitare di sé, immagini e suoni si sovrappongono nella stessa cornice a significare situazioni inconciliabili: «No, non stavo vedendo nulla che appartenesse al passato, nulla che avessi dimenticato. E ne ebbi assoluta certezza quando vidi che l’uomo, il marito, l’uomo che ero io, Tom, si alzava in piedi di scatto e afferrava Janet per il collo, sua moglie, mia moglie, seduta sul divano».

Di echi e di presenze letterarie è saturo il racconto «Un epigramma di lealtà», ambientato in una delle più raffinate librerie antiquarie di Londra, il cui proprietario ha appena aggiunto alla vetrina la versione dattiloscritta e corretta dallo stesso Beckett di Watt: prezzo, cinquantamila sterline. Con suo grande disappunto, tre barboni ubriachi fissano il prestigioso negozio, impedendone la vista ai passanti. Il libraio esce, li apostrofa, ma uno di loro si presenta come l’autore di uno dei libri esposti. Lo indica: quello sono io, dice. Il suo nome è John Gawsworth e non è un personaggio inventato: Marías, che lo aveva già introdotto nel romanzo del 1989 titolato Tutte le anime, ne comprò all’asta i manoscritti e le casse dei piccoli oggetti con i ricordi di guerra, per poi scoprire che Gawsworth era stato il re di Redonda, un’isola delle Antille della quale Marías sarebbe diventato, e lo è ancora, l’ultimo sovrano.

Il soggetto è Elvis Presley
Ma il racconto che più sta a cuore allo scrittore spagnolo, il più lungo e elaborato, scarta dai territori a lui familiari per inoltrarsi nel più triviale dei mondi dello spettacolo: si intitola «Malanimo» e ruota interamente intorno a Elvis Presley, al cui seguito l’io narrante viene assoldato in qualità di interprete e maestro di dizione. Fra Hollywood e Acapulco, infatti, il paludato cantante dovrà girare alcune battute in spagnolo per il suo dodicesimo film, ennesima tappa della oltraggiosa decadenza verso la quale lo ha indirizzato la macchina spremisoldi che gli gira intorno.

Dalla troupe di improbabili parassiti che vive al soldo di Presley, alla malavita messicana in cui si imbattono in un locale di Acapulco, nulla è più lontano dagli ambienti restituiti dal Marías che conosciamo, solitamente oscillante fra interni medioborghesi madrileni e biblioteche oxoniane. Proprio perciò, forse, questo racconto gli è tanto caro, perché più di altri sembra avere forzato la sua scrittura a raccogliere la sfida lanciata dall’immaginazione.