Presentato in anteprima al Bifest e selezionato da Nanni Moretti tra le opere prime per la rassegna Bimbi Belli, Animali randagi, uscito in sala il 27 giugno, è l’esordio alla regia di Maria Tilli. A partire da quest’ultimo lavoro abbiamo conversato con la regista.

Questo è il tuo primo lungometraggio di finzione. Cosa significa esordire oggi?
L’esordio cinematografico in Italia sta diventando un genere, come lo è diventato a un certo punto il cinema d’autore. Mi fa paura che l’esordio sia venduto in quanto tale e che chi esordisce o segue certe tappe o, come si dice, «si è bruciato». Io credo che ci voglia tempo per imparare a stare su un set perché sono molte le componenti in gioco, sia umane che artistiche, che devi imparare a controllare. Uno dei miei primi lavori, ancora frequentavo il Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato nel programma di MTV 16 anni e incinta. È stata un’esperienza che mi ha insegnato a lavorare con le persone e con le loro storie. Per me questo lavoro è come un istinto.

«Animali randagi» è la storia di due paramedici che trasportano in Serbia un uomo malato, accompagnato da sua figlia, per procurarsi l’eutanasia. Come racconteresti il tuo film?
È un road movie di quattro personaggi molto diversi tra loro che nel confronto con una cosa enorme come l’interruzione di vita dovranno mettere in discussione le loro certezze. Sono un po’ irritata dal modo timido con cui il cinema affronta la questione dell’eutanasia e per questo abbiamo pensato a un soggetto che avesse una malattia invisibile, che fosse ancora pienamente in possesso di ogni sua facoltà ma che avesse già deciso di interrompere la sua sofferenza. È un film sull’accettazione potremmo dire ma non tematico sull’eutanasia. Né c’è parabola morale perché non credo che nella vita si cambi immediatamente, anche in seguito a esperienze forti. Nel finale credo si capisca cosa intendo…È piuttosto un film di relazione, come mi piace definirlo. Per questo è stato importante girare in sequenza, accompagnando il viaggio dei personaggi e degli attori. Non è un film di trama, sono le immagini, i volti a dire tutto.

L’ambulanza su cui viaggiano è una navicella, una capsula. Sembra quasi una contraddizione per un road movie…
Si, volevo che tutto emergesse nell’hic et nunc di questa ambulanza, come fosse una centrifuga di sentimenti. Ne ho anche cercata tanto una che avesse internamente, come quelle di una volta, una vetrata come divisorio tra la parte anteriore e quella posteriore. È stato un escamotage quasi teatrale che mi ha dato l’opportunità di fare delle scene in cui accadessero più cose contemporaneamente.

Eppure attraverso Luca e Toni emerge il tuo sguardo sulla provincia rurale…
Non volevo raccontare un non-luogo. Il cinema italiano ha raccontato tanti non luoghi negli ultimi anni, forse anche per non prendersi la responsabilità di parlare di «quel» luogo specifico, spremendo così Napoli come anche la periferia romana. E siccome credo che sia il carattere specifico degli ambienti a darci coscienza di cosa siamo – pensiamo alla funzione altissima che avevano i caratteristi come specchio della società nel cinema di una volta – il luogo che volevo emergesse nel film era la provincia contadina abruzzese da cui vengono Luca e Toni e da cui vengo anche io. Una provincia che non è stata sconvolta dalle fabbriche e che per questo è molto diversa da quella industrializzata come la periferia di Piombino negli anni Novanta per fare un esempio.

Il ritmo di vita, il rapporto con il lavoro, i desideri, sono diversi, più lenti. Allo stesso tempo la ruralità che vediamo al cinema è spesso una ruralità «in costume» in cui manca il contesto, non sai mai che anno è, chi c’era al governo in quel periodo…
Nella mia famiglia erano commercianti di bestiame e io ho assorbito attraverso mio nonno quel passaggio dalla società contadina alla casa popolare: le scale, la possibilità di conservare grazie al frigorifero, la novità delle cose monouso. La lista nella spesa che fa la nonna di Toni nel film è la stessa che mi fa fare mia nonna, con quegli elementi che ancora adesso cercano un collegamento con la modernità. È questa la provincia contadina di cui volevo parlare.

Anche nel tuo primo documentario «La gente resta» (2015), Taranto, il quartiere Tamburi e l’Ilva emergono dal racconto che ne fanno i protagonisti. Anche qui non siamo difronte a un film tematico.
Vedere l’Ilva da fuori è tutt’ora uno spettacolo pirotecnico che potrei definire anche bellissimo. Si capisce perché ha ingannato tanta gente. Erano contadini e pescatori, vivevano con poco, senza elettricità e la fabbrica rappresentava lavoro ma anche un luogo diverso dalla stalla. Mi interessava quindi capire la traiettoria di certi processi storici e culturali a cui la politica non ha dato alcuna risposta e che sono transitati sui corpi dalle persone che all’Ilva hanno lavorato. Ricordo che al festival di Torino – in cui il film vinse il Premio Speciale della Giuria – trascorsero alcuni istanti prima dell’applauso finale. Il film era piaciuto ma la crudezza di certi racconti può deludere lo spettatore, eppure credo sia necessaria. Per combattere e progredire culturalmente bisogna essere coscienti dei processi profondi.

Il tema della morte è centrale nei tuoi film, come anche il rapporto con gli animali.
Ho una visione tenera della morte e per me è importante imparare a parlarne. Sono cresciuta più con gli animale che con le persone. Nei miei film sono esseri dominati dall’uomo perché questo tipo di rapporto mi ha sempre impressionata. Una delle prime frasi che ho detto vedendo un animale morto è stata l’espressione «povera bestia». Con l’impianto di Taranto abbiamo distrutto l’ecosistema e nel documentario vediamo come la bambina esprima già un rapporto violento con gli animali. Anche in Lontani da casa ci sono quei pesci nell’acquario messi lì per abbellire il luogo. In quel lavoro a parlare sono i residenti di San Patrignano. Volevo che emergesse il racconto dell’esperienza umana con la droga e, ancora una volta, l’evidenza dei rapporto di sfruttamento che la società agisce su soggetti che vengono marginalizzati. La morte per queste persone esiste. Sembravano applausi è un film diverso dagli altri ma è vero che anche Marcello, fuori dalla «salvezza» del cinema, si confronta con la morte. E poi ci sono le galline in gabbia…

«Sembravano applausi» nasce sul set di Dogman di Matteo Garrone di cui seguivi il back stage. Come si è trasformato in un documentario sul cinema?
Garrone mi chiamò dopo aver visto La gente resta e mi presentò Marcello Fonte che aveva scelto come protagonista, forse intuiva già che dal nostro incontro sarebbe potuto nascere un film. Quando andai sul set vidi il modo di lavorare di Matteo, la sua capacità di intrecciare la finzione con la realtà, di far diventare il cinema un evento. È quindi diventato un documentario sul cinema, su Marcello, su quello che stavamo vivendo perché più giravo e più mi rendevo conto che non stavo facendo delle clip promozionali.