Non ci si sente soli nello studio-archivio di Maria Mulas (Manerba del Garda 1935, vive e lavora a Milano), a due passi da Corso di Porta Ticinese, circondati dai tantissimi volti di personaggi del mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo. Ci sono i ritratti di Leo Castelli, David Hockney, De Chirico, Andy Warhol, Louise Bourgeois, Bruce Nauman, Robert Rauschenberg, Keith Haring, Hans Richter, Gilbert & George, Giosetta Fioroni, Alberto Burri, Carla Accardi, Jannis Kounellis, Virna Lisi, Nanni Moretti, Henry Moore, Silvana Mangano. Una loro selezione sarà esposta a Roma in occasione della personale Maria Mulas. Solo show (a cura di Barbara Martusciello) presso Howtan Space a Roma (da oggi al 27 ottobre).

La tazza di tè al limone che sorseggiamo in un caldo pomeriggio d’autunno potrebbe essere un calice di spumante o magari un gin tonic, immaginando che la conversazione si svolga in uno dei tanti party e cocktail di cui, dalla metà degli anni Sessanta: Maria Mulas è stata testimone e interprete nei salotti e nelle gallerie d’arte della Milano bene. Molte fotografie – come si vede sui vari ripiani di una delle numerose scaffalature, dove le buste gialle sono allineate in ordine alfabetico ed è specificato b/n o colori – sono state realizzate nel suo studio, altre in giro per il mondo. A Parigi si recò con la critica d’arte Lea Vergine nell’abitazione di Sonia Delaunay: un progetto iniziato nel ’79 per rintracciare le grandi figure di artiste (fra cui Gina Pane, Meret Oppenheim, Marcelle Cahn, Bice Lazzari) che si sarebbe concluso con la mostra L’altra metà dell’avanguardia.

Ogni immagine di Maria Mulas è sempre parte di una sequenza che non è solo fotografica. Pezzi di vita – storie – che emergono dal passato, come quando in camera oscura si assisteva con ansia alla magia dell’immagine che prendeva forma nella bacinella. Nell’archivio ci sono anche le immagini di architetture, gli scorci urbani, la moda, osservati e raccontati dall’autrice con lo stesso coinvolgimento empatico e quella consapevolezza – mai tradita nel tempo – che, affidando il suo pensiero al linguaggio fotografico, avrebbe guardato oltre.

Rigore e disciplina sono due aspetti che appartengono al suo sguardo. Dipendono anche dalla frequentazione del teatro di Giorgio Strehler?
Il rigore degli altri mi ha influenzata. Non so come mai, forse sarò fragile (ride). Anche se non credo che sia così… Quando lavoravo con Strehler, lui era sempre presente e mi suggeriva: «mettiti lì, mettiti là, fregatene della gente. Se ti dicono qualcosa, digli di uscire». «Ma, scusa, allora esco io», gli rispondevo. Comunque, era molto gentile con me. Con il teatro è necessaria la disciplina. C’è un orario d’inizio e non è possibile non arrivare in tempo, altrimenti si perde tutto. Continuando a fotografare in teatro anch’io sono diventata molto più puntuale e attenta alle cose.

Lei è arrivata a Milano nel ’56, ma prima di iniziare a fotografare dipingeva…
Mio fratello Ugo già fotografava e aveva la camera oscura. Lo aiutavo a stampare, poi sono riuscita a metter su un mio studio con la camera oscura, ma quando c’era necessità continuai a dargli una mano a stampare. Amavo la pittura: mi sentivo l’arte dentro. Avrei voluto fare la pittrice, ma allora bastava fare un segno sulla tela. Mi sembrava assurdo, avevo la sensazione che chiunque potesse fare l’artista. Non si vedeva altro che astrazione. Anche se, a dir la verità, l’arte astratta mi piaceva più di quella figurativa. La fotografia era meno assalita della pittura. Non è stata una scelta di convenienza: la fotografia mi piaceva veramente. Era elettrizzante fare uno scatto e poi metterlo in un liquido che sembrava acqua e vedere venir fuori l’immagine. Un’operazione di grande fascino. Ho stampato moltissimo. Tutte le vecchie foto che ci sono nel mio archivio sono state stampate da me. Ora ho smesso, non ho più la camera oscura.

 

Maria Mulas

 

Si può parlare di molto tempo trascorso in camera oscura…
Ci stavo anche cinque o sei ore. Mica stampavo solo una o due fotografie! In un solo pomeriggio poteva capitare di stamparne anche cinquanta e qualche volta di più. Apparentemente è un’operazione semplicissima, basta mettere la carta sotto l’ingranditore e accendere la luce. Ma non è detto che la stampa venga bene. Se le fotografie sono scattate con il flash, non c’è nulla da fare perché è tutto uguale. Io non l’ho mai usato e neanche mio fratello. Ho cominciato a utilizzare quello elettronico solo in studio, quando facevo i ritratti. Veniva il personaggio, lo facevo sedere dove volevo, mettevo la luce a destra, a sinistra o di fronte e le foto venivano sempre come volevo io.

Il ritratto è il genere che ha sempre privilegiato…
Sono attratta dalle persone, sono curiosa e con la fotografia posso conoscere meglio la gente. Non solo nel momento in cui scatto, anche dopo aver stampato l’immagine, rivedendola. Il bianco e nero è più originale perché non è reale. Nessuno di noi è in bianco e nero. Il colore non è altrettanto interessante, in quanto meno legato all’invenzione e qualche volta, se viene male, è anche brutto.

Nel fotografare quanto è stato importante l’istinto?
Credo che nel mio caso sia stato molto importante. È istinto puro, specialmente quando si fotografa in strada, senza un obiettivo preciso.

Le è mai capitato, negli anni e nonostante l’amore per il suo lavoro, di dover fare qualcosa controvoglia?
Ho lavorato al libro Milano vista da…, pubblicato nel 1973, anche quando non ne avevo voglia. Ma ero costretta a scattare foto. Ne avrò fatte a migliaia… Il libro ne contiene 350, perciò ho dovuto metter su un archivio di almeno quattro volte di più. Anzi, anche cinque… Volevano la tal chiesa e anche se a me non mi importava nulla, dovevo andare a scattare, perché è un libro che racconta la città attraverso le persone, i luoghi, le architetture. Certe cose erano un po’ banali ed è difficile fotografare quando è così.

Nel ’76 alla galleria Diaframma è stata organizzata la sua prima mostra: un luogo milanese storicamente importante per la fotografia.
Lanfranco Colombo era anche bravissimo e molto simpatico. La mostra aveva come perno un’idea di borghesia, ma non fu capita. Chissà perché ha piazzato tutti questi ricchi, si chiedeva il pubblico. La mia era una graffiatura, ma ho lasciato che ognuno cogliesse ciò che desiderava. I soggetti erano persone facoltose che ritraevo nelle gallerie, quelle che non hanno nulla da fare e vanno a vedere le mostre senza capire nulla perché non gliene importa granché. A loro basta dire: «Sono stata lì». Le ho fotografate anche in occasione di manifestazioni, pranzi, quegli eventi che piacciono a chi ha un certo tenore di vita. Allora mi facevano effetto: ero giovane e assai più ingenua. Quella rassegna fu un successo. C’era una gran curiosità e, forse, qualcuno era anche un po’ interessato. Ho avuto tanti complimenti, fin troppi… (ride).

Insieme a suo fratello Ugo lei si dedicava anche alla ricerca per sperimentare sul linguaggio fotografico?
La ricerca è venuta dopo. Quando inizi, hai in mano una macchina che non hai mai usato e non sai cosa succede. Con mio fratello abbiamo vissuto un bellissimo rapporto, un’ottima intesa – anche culturale – solo che è morto troppo giovane. Che lui fosse bravissimo è indubbio. Per me la sua scomparsa è stata una tragedia. Comunque, amo molto anche gli altri fratelli che non sono diventati famosi… (ride). È stato lui a stimolarmi. Altrimenti, probabilmente, mi sarei messa seriamente a dipingere. Invece, Ugo ha lasciato che scaturisse in me un grande desiderio di diventare fotografa.