Maria Cecilia Guerra (LeU), sottosegretaria all’Economia, circola l’idea di un blocco selettivo dei licenziamenti nei settori più in difficoltà come il tessile. Perché lei ritiene rischioso questo tipo di blocco?
Perché rischia di essere molto ingiusto. Lo abbiamo sperimentato con i codici Ateco. Quando si prende un settore colpito, come il tessile, si rischia di non cogliere i problemi della filiera, cioè le imprese che lavorano per il settore come fornitori ma non figurano in quel settore. Così si rischia di non coprire i loro lavoratori. Nella manifattura abbiamo imprese che per la difficoltà, ad esempio delle forniture a livello internazionale, soffrono molto una crisi che può essere congiunturale. Per questa ragione l’arbitrarietà della scelta del criterio selettivo legato al settore non mi convince. Se proprio dobbiamo arrivare a una selezione userei un criterio più trasversale come la perdita del fatturato.

Il governo prenderà un’iniziativa per prorogare il blocco dei licenziamenti oltre il 30 giugno?
Dobbiamo chiederci se è troppo presto aprire a soluzioni irreversibili come il licenziamento o continuare con il blocco ancora per poco, fino a fine ottobre. Tra l’altro stiamo registrando importanti segnali di ripresa e le stime sono riviste al rialzo. Nel decreto Sostegni-bis il governo ha previsto una serie di misure tra cui il contratto di solidarietà. Si tratta di uno strumento che permette di mantenere l’occupazione a fronte della riduzione delle ore. Così si distribuisce il lavoro anche se c’è una riduzione dello stipendio per un periodo di tempo.

Il blocco dei licenziamenti ha funzionato?
È stato efficace tra i dipendenti a tempo indeterminato. Prendiamo il dato dell’Istat per cui nell’ultimo anno sono andati perduti 889 mila posti di lavoro. Una quota rilevante, 310 mila, riguarda i lavoratori autonomi e quasi tutti senza dipendenti. Questa situazione non ha niente a che fare con il blocco dei licenziamenti. Il problema è semmai che la partite Iva non hanno ammortizzatori sociali soddisfacenti. Ci sono altri 576 mila che hanno perso il lavoro ed erano dipendenti, ma tra questi quelli a termine sono 201 mila. Purtroppo queste persone non sono protette dal blocco dei licenziamenti. Restano 375 mila a tempo indeterminato. Tra questi ci sono 130 mila che, secondo le nuove regole statistiche, vengono classificati come inattivi perché sono in cassa integrazione da più di tre mesi. Il loro posto di lavoro può ancora essere salvato. Quelli che abbiamo perso sono soprattutto nei campi che non potevamo tutelare. La misura è valida: anche uno studio di Bankitalia dice che ha impedito la perdita di 440 mila posti di lavoro di cui almeno 200 mila sarebbero stati licenziati per motivi legati alla pandemia.

Il problema allora sono i lavoratori che non hanno tutele. Il Jobs Act è in vigore, mentre si pensa di continuare a derogare alle clausole del decreto dignità. Ammesso che un nuovo lavoro esista, siete sicuri che i licenziati di oggi non saranno i nuovi precari di domani?
Sono d’accordo con la sua osservazione. Non bisogna licenziare creando disoccupazione tra i lavoratori tutelati e maturi, mentre allo stesso tempo si crea lavoro precario soprattutto tra i giovani e le donne. Io lo vedo con i miei studenti di economia. Si laureano e trovano lavoro con gli stage che non sono stage ma lavoro a tempo pieno pagato 600 euro. È inaccettabile. Sono assolutamente contraria all’idea che si esca dalla crisi aumentando la precarietà. Sono preoccupata dalle proposte di chi pensa di favorire la ripresa attraverso un’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro estendendo contratti precari o reintroducendo i voucher. È un’ipotesi che non condivido ed è proprio sbagliata dal punto di vista economico. Puntare su una ripresa fondata sul lavoro poco pagato o pagato solo con incentivi pubblici significa non investire sulla qualità del lavoro e dello sviluppo.

Si fa molto affidamento sulle politiche attive del lavoro che dovrebbero permettere a chi perde il lavoro di trovarne un altro. L’agenzia delle politiche attive Anpal è commissariata, la riforma dei centri per l’impiego è ancora da fare. Per avviare un sistema di workfare potrebbero volerci anni. In quanto tempo ritenete di avviare questo sistema?
È il tema dei temi. Abbiamo un contesto di ripartizione delle competenze tra Stato e regioni che non aiuta. Ci sono fondi distribuiti alle regioni per fare assunzioni nei centri per l’impiego ma in buona parte non sono state fatte anche se sono possibili. Ci sono ritardi che preoccupano. Il commissariamento dell’Anpal potrebbe portare a un ruolo forte dell’intervento nazionale anche in funzione di coordinamento che apra un confronto con le regioni. Il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) va in questa direzione. La sua attuazione è una scommessa che si giocherà giorno per giorno.