«Una follia, ma davvero Conte pensa di poter governare l’Italia in questo momento con un pugno di responsabili raccattati in Senato?». Andrea Marcucci, capogruppo Pd a palazzo Madama, non si stanca di ripeterlo a chi in queste ore gli chiede lumi su una possibile sfida tra Renzi e il premier nell’Aula del Senato. «Se anche i numeri si trovassero, e per ora non ci sono, il governo sopravviverebbe al massimo qualche settimana. Per Conte sarebbe comunque la fine dell’esperienza a palazzo Chigi, come fa a non capirlo?».

Nel gruppo dem tutti condividono la linea del capogruppo. Ma questa volta la sintonia c’è anche con i vertici del partito, che condividono il ragionamento di Marcucci e proseguono -a partire da Zingaretti- in un silenzio assordante sulla crisi di governo. Dopo che il 30 dicembre Conte ha sfidato Renzi alla conta in Parlamento, dal Nazareno non è arrivato un fiato a sostegno del premier. E neppure ieri, dopo che Renzi e Boschi hanno bombardato palazzo Chigi con due interviste di pura sfida.

Tacciono anche Franceschini e Andrea Orlando, che ieri ha rotto il silenzio con un tweet solo per smentire seccamente l’ipotesi- fatta uscire da Renzi- che lui stesse brigando per convincere Giovanni Toti a schierare i suoi 3 senatori a difesa di Conte.

Un silenzio che, nella migliore delle ipotesi, rientra nella linea già espressa da Zingaretti il 29 dicembre, quella «terza via né con Conte né con Renzi» che aveva già fatto capire come i rapporti tra palazzo Chigi e il Nazareno fossero davvero ai minimi termini.

In queste ore il Pd sta cercando di convincere il premier a prendere atto della crisi, per poi mettersi al lavoro su un suo possibile nuovo governo. Con alcune clausole: cedere la delega ai servizi segreti e cambiare linea sul Mes sanitario. Tra i dem il muro messo da Conte davanti all’ipotesi di cedere la delega («Forse la maggioranza non si fida di me?») ha scatenato una forte irritazione, che ha coinvolto anche l’aria più vicina a Franceschini. Non a caso Renzi in queste ore batte e ribatte proprio sul tasto dell’intelligence, ricordando che «anche Trump ha ceduto la delega». Perché sa che è uno dei nervi scoperti del Pd.

Formalmente i dem fanno filtrare che «ogni decisione su come gestire questa situazione spetta a Conte». Ma il messaggio sottotraccia è un altro: «Non si può mettere insieme una maggioranza raccogliticcia». Un «percorso senza prospettive», va ripetendo Zingaretti. E a chi gli chiede se abbia deciso di mollare il premier al suo destino risponde: «Non siamo mai stati incollati a Conte a prescindere, ma solo per fare le cose. Sono mesi che diciamo che il governo non va avanti per inerzia o con pigrizia».

Ieri al Nazareno è scattato l’allarme quando si è compreso che la conta in Parlamento non è solo una boutade lanciata davanti ai giornalisti, ma un progetto reale di Conte. E quando Renzi ha accettato il guanto di sfida è partito un forte pressing per convincere l’inquilino di palazzo Chigi a deporre le armi per dare vita a un governo più solido, con un programma in pochi punti centrato sul Recovery in grado di arrivare a fine legislatura. Ma con un premier meno onnipotente e un accordo chiaro sul cambio della legge elettorale in senso proporzionale.

Ma si ragiona anche su un piano B, nel caso in cui il 7 gennaio Italia Viva ritiri i ministri e Conte chieda la la fiducia in Parlamento. Il Pd non farà mancare i suoi voti, ma in caso di incidente riprenderebbe quota l’ipotesi del voto anticipato. Zingaretti lo aveva proposto già nel 2019, ma ora, dopo aver portato acqua per un anno e mezzo al Conte bis, nessuno nel partito potrebbe dirgli di no.