La grafia spoglia dei rami degli alberi si imprime su un cielo opaco e inespressivo come una perla. La finestra è aperta. Una luce fredda, che sa di una stagione sospesa ma non ancora immobile, entra nella stanza e dà profondità agli oggetti, presenti a se stessi e densi nel contesto, giustificati e simbolici. Un bicchiere di vetro rovesciato sul pavimento, la macchia d’acqua dai margini scomposti, alcune foglie secche e accartocciate. Giornali ripiegati sul comodino, un abat-jour dal paralume in tessuto. E poi le scarpe pesanti – la sinistra slacciata – dell’uomo che, seduto sul bordo del letto, osserva l’angolo di paesaggio tagliato di netto dall’infisso. La nuca di una donna, il volto riverso sul cuscino, i lunghi capelli scarmigliati.
La storia di The Parents’ Room, opera di Diego Marcon, a cura di Eva Fabbris e Andrea Viliani, inizia con un interno famigliare e una melodia e finisce con la stessa inquadratura e con un lungo silenzio. Quindi ricomincia, già scritta e avvenuta anche se ancora da accadere, lasciando un alone di incertezza sulla sua reiterazione uguale a se stessa. In piedi, con la schiena appoggiata alle pareti bianche della sala del MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, oppure seduti sulla bianca moquette, gli osservatori assistono allo svolgimento di un loop scultoreo, estroflesso verso le dimensioni multiple del nostro spazio e del nostro tempo ma anche della nostra percezione e della nostra memoria che, a ogni ripetizione, raccolgono una diversa sfumatura di senso e di suggestione, aggiungendo un particolare o dimenticandolo.
Cortometraggio presentato a luglio nella sala cinematografica della Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, promosso dall’associazione culturale INCURVA di Trapani, The Parents’ Room è stato trasformato in un’installazione da fruire tramite le modalità emotive e prossemiche di un percorso espositivo. Avviando un progetto di ampliamento strategico della collezione, secondo gli intenti dichiarati della nuova presidente della Fondazione Donnaregina Angela Tecce, l’opera è stata acquisita dal museo di Napoli.
Dal terzo piano dell’antico palazzo di via Settembrini, si accede a una sala vuota in penombra, fiocamente illuminata da due applique che si ritrovano identiche nell’ambiente successivo dove, sulla parete di fondo, si svolge la proiezione che, a sua volta, in un gioco di rifrazioni ed estensioni, sembra tagliare la distanza verso il fruitore, assottigliando la linea di separatezza della realtà e della narrazione, diluendo la sensazione di evidente quotidianità tra rivoli di oscuri presagi. Percorsa da una latente freddezza compositiva, la superficie delle immagini in movimento si riversa nell’allestimento minimale che, scandito solo dall’alternanza di luci e ombre, suggerisce la sfuggente atmosfera di uno spazio domestico tanto estraniante quanto ordinario, con i suoi interstizi irrisolti e densi di inquietudini. In bilico tra i fotogrammi che scorrono e l’architettura della sala del museo, The Parents’ Room è così diventata più una performance da attraversare che un cortometraggio a cui assistere.
D’altra parte, la ricerca di Marcon è incentrata proprio sulla destrutturazione del linguaggio cinematografico mediante la lente del fantasmagorico e del visionario, intesi come medium di indagine sulla soglia tra reale e finzione. Nato nel 1985 a Busto Arsizio, Diego Marcon si è diplomato come montatore cinetelevisivo presso la Scuola di Cinema, Televisione e Nuovi Media di Milano e ha completato la sua formazione alla facoltà di Arti Visive dello IUAV di Venezia. Le sue opere sono state esposte in festival cinematografici e istituzioni museali in tutto il mondo. Nel 2018, ha vinto il MAXXI Bulgari Prize con Ludwig, un cortometraggio sintetico, meticolosamente costruito in tutte le sue componenti, tanto visive quanto sonore, incentrato sulla presenza/assenza di una figura dalle fattezze di un bambino e dalla consistenza di un’apparizione. Del modello 3D del personaggio è stata realizzata anche una scultura in marmo di Carrara.
Se quel progetto approfondiva le possibilità digitali della tecnica CGI – Computer Generated Imagery, con un solido sconfinamento nella concretezza di una pietra nobile, in The Parent’s Room Marcon gioca su una sfumatura ancora più sottile, muovendo i pezzi in campo secondo uno schema onirico di prossimità, organico, liminale, di cronenberghiana memoria.
È immediata l’impressione di qualcosa fuori di sesto, che questa famigliare scena di dialogo recitativo tra genitori e figli sia incrinata da una profonda venatura di irrazionalità, ogni elemento della mise en scène sembra sussurrarlo. Immobili sulla scena e interpretati da attori reali con il viso alterato da maschere prostetiche fibrose, in disfacimento, disturbanti ma non ancora grottesche – la cui elaborazione è stata centrale nell’intero processo di realizzazione –, i personaggi agiscono attraverso la voce, cantando una filastrocca, dolcemente ma con macabra ironia, in un meccanismo linguistico di progressivo svelamento del fatto e di attesa dello snodo. «IL PADRE: Dovrei dirlo, ora che è finita / A mio figlio ho tolto la vita. / L’ho soffocato che dormiva / E guardando il colletto del pigiama / Mi sono accorto di un bottone che mancava. IL FIGLIO: L’ho perso giocando a fare il pilota / Mi hai ucciso papà brutto idiota!». Canteranno quindi la Figlia e la Madre, vittime della stessa sorte, con la chiusura del cerchio affidata alla rima dell’uomo: «IL PADRE: Penso sia vero che vi ho uccisi tutti e tre / Ma dopotutto mi sono ucciso anche a me. / Poi ho aperto l’intera finestra / Per cambiare aria dentro la stanza / Mi sono sparato, disteso e ammazzato».