«Il telefono suona. È Charlotte che mi chiama da Israele. Eravamo nella stessa classe a Montélimar. Lei è stata arrestata dopo di me, ma non l’ho mai vista a Birkenau.
– Cosa fai in questo momento? – mi chiede .
– Lavoro sull’amore.
Rimane in silenzio, come se la parola amore si perdesse, picchiasse dentro la sua testa. Non sa cosa fare.
– L’amore nei campi o cosa?
– Dopo i campi.
– Ah, è meglio. Di amore nei campi non ne ho visto molto». L’amour aprés (Grasset) scritto con la collaborazione di Judith Perrignon è uscito lo scorso anno, un libro di memorie, un libro sull’amore dopo l’esperienza dei campi di concentramento vissuta a quindici anni. L’arresto insieme al padre il 13 aprile del 1944 sul treno (lo stesso che portò via Simone Veil) per Birkenau. Quando torna ha diciotto anni, ci mette del tempo per aprire la valigia di quella memoria insieme ai tanti amori della sua vita: lettere, biglietti, messaggi, la possibilità di ritrovare nel corpo umiliato e raggelato dalla violenza nazista il desiderio, il sorriso, la voglia di ballare.

E però Marceline Loridan-Ivens, che è mancata ieri a novant’anni, cineasta e scrittrice, che chi la conosceva racconta amante della vita, inarrestabile, quella parte di sé l’ha tenuta chiusa a lungo se si pensa che il primo film da regista – che è anche il suo esordio nella finzione – in cui l’affronta lo gira a settantacinque anni: La Petite Prairie aux bouleaux (2003),  Anouk Aimée interpreta il ruolo della protagonista, Myriam, una ex-deportata francese che vive in America e che torna dopo molto tempo sui luoghi della sua prigionia, in Polonia, nel campo di concentramento, per cercare attraverso diversi incontri di comprendere cosa è accaduto, e per riportare alla luce quanto ha seppellito nella sua memoria. Il riferimento a sé stessa è evidente, e non solo nella storia, soprattutto nelle sfumature che la compongono e l’attraversano, dolorosa, eccessiva, ma sempre piena di vitalità.

Nata Rozenberg a Epinal, nel 1928, da una famiglia di ebrei polacchi emigrati in Francia, quando ritorna dopo la guerra all’inizio c’è il trauma, ci sono le domande, c’è il ritrovamento della madre e delle sorelle. C’è una sofferenza che non passa mai ma che lei, appunto, preferisce mettere da parte.

A Parigi Marceline inizia la sua vita »balagan», movimentata – come l’ha chiamata in un altro libro, Ma vie balagan – una vita di lotta, di impegno, di libertà. Frequenta Saint-Germain, i suoi artisti e intellettuali, Perec, Regis Debray, Barnard Kouchner, costruisce la sua «biblioteca immaginaria», un po’ alla volta. Diceva: «Deportandomi mi avevano impedito di studiare, non ero più andata a scuola, e io volevo appoggiarmi a quello che non avevo imparato non su ciò che avevo vissuto».

Entra nel Pc – da cui uscirà nel ’55 – si schiera contro la guerra in Algeria, frequenta la Cinématheque. «Molto presto ho trovato una famiglia di adozione, al Tabou, a La Rose, ci eravamo scelti».

Il cinema diventa subito parte di questa esperienza. Edgar Morin la coinvolge in quello che sarà l’inizio del cinema diretto in Francia, «cinéma-vérté» per riprendere la definzione degli autori, reso possibile grazie ai nuovi mezzi tecnici, macchina da presa in sedici millimetri e suono in presa diretta. Chronique d’un eté (1961) ci mostra Marceline nelle strade di Parigi chiedere ai passanti se sono felici. Un ragazzino scappa, un uomo scivola via in fretta, una donna è esitante, le risposte compongono il ritratto di una Francia degli anni Sessanta tra delusioni, aspettative tradite, un futuro incerto, la leggerezza che si respira sulla spiaggia di Saint-Tropez dove gironzola una sosia di Brigitte Bardot. Nel finale Marceline attraversa Place de la Concorde e cammina fino alle vecchie Halles ricordando il padre Solomon, che non era sopravvissuto a un microfono invisibile, parla a sé stessa, nel rumore della città, ma – come diceva Rouch – « Il cinéma-vérité è fatto di menzogne che per un caso sono più vere della verità».

Nel 1962 gira il suo primo film, insieme a Jean-Pierre Sergent, Algérie année zéro, e l’anno dopo sposa il cineasta olandese Joris Ivens, una unione complice nell’arte, nelle scelte di campo, nella politica che diviene sguardo sul mondo. Viaggiano, l’Asia, la Cina, lottano contro il colonialismo, la guerra in Vietnam. Marceline si occupa del suono per Le Ciel et la Terre (1965), insieme arrivano sulla linea del fronte in Vietnam dove realizzano Le 17e Parallel, la resistenza dei vietnamiti contro gli attachi degli americani, il quotidiano di contadini e soldati che seguono Ho Chi Minh, lungo quella striscia tra il nord e il sud del Paese, sotto i tunnel che permettono la fuga e la sopravvivenza ai bombardamenti dell’esercito americano.

 

Tra il 1972 e il 1976 i due registi sono in Cina, girano Comment Yukong déplaça les montagnes, una serie di film sulla Rivoluzione culturale cinese. «In quegli anni c’era una tale violenza anti-cinese che in risposta avevano deciso di filmare le persone, la loro quotidianetà, mostrare che era un popolo come un altro. Mi domandavo se ci fosse una repressione ma ero lì per riprendere, per fare altro. In Cina mi sono riconosciuta nel lavoro, nella solidarietà, pensavo che si potesse cambiare così l’essere umano nel profondo. Ero un po’ naif. Ci consideravano dei socialdemocratici mentre qui in Europa venivamo visti come dei rivoluzionari. Lì non eravamo abbastanza di sinistra, qui lo eravamo troppo».

Nell’88 tornano in Cina per quello che sarà l’ultimo film di Ivens, Une histoire du vent, presentato alla Mostra di Venezia, l’anziano regista, ormai novantenne, cerca di filmare il vento, ancora una volta, quell’allegoria di un invisibile in cui si catturano il respiro e i cambiamenti della società. «Forse avevamo idealizzato la Rivoluzione culturale, a un certo punto visto che andavo in giro a fotografare, specie le donne, hanno cominciato a credere che fossi una spia. Per dieci anni abbiamo vissuto una grande crisi artistica, politica, del pensiero. Con Une histoire du vent abbbiamo filmato in rottura col realismo della lotta e dell’impegno cercando di mettere in primo piano l’immaginario. Il film riflette le contraddizioni della Cina che erano anche le nostre».