Sui social impazza il cartellone blu «Welcome to the free tobacco 2018 Fifa World Cup» affianco Maradona col sigaro fumante, occhiali da sole a specchio e doppio orecchino luccicante ai lobi che assiste in tribuna a un match dell’albiceleste oppure la volgarità dei due diti medi rivolti ai suoi avversari con commenti terribili o favorevoli. Insomma una scelta dei suoi milioni di gesti temerari, alcuni fortemente ideologici altri meno, come quello del luglio 1984 quando spedì un pallone in cielo, dopo qualche parola di circostanza, presentandosi al pubblico del San Paolo, accorso in decine di migliaia a guardare semplicemente «il calciatore più forte del mondo» palleggiare con una sciarpa del Napoli, la sua nuova squadra, al collo. In quel catino c’era anche un bambino di nove anni, Marco Ciriello, oggi giornalista e scrittore, autore di «Maradona è amico mio» (pg.185, euro 16, 66thand2nd), uno splendido memoir che lega indissolubilmente le sue vicende personali e familiari alla parabola del Pibe de Oro, vite parallele immerse profondamente nella capitale del mezzogiorno e nelle sue contraddizioni, con quel miraggio dello scudetto da acchiappare per poter ritrovare l’antico orgoglio grazie alle prodezze di DiegoArmando e attraverso lui, quei tanti che speravano di poter essere altro, riscattando le miserie quotidiane. Tutta l’epopea del numero 10 è profondamente destrutturata, in episodi e invenzioni, cronaca e funambolismi, apparizioni tv e problemi di salute, così l’invito del compagno Gregorio Carrizo per andare al provino dell’Argentinos Junior, l’ingresso nella squadra giovanile, i Cebollitas, che vinsero 136 partite di seguito, dove affinò il suo repertorio di finte, tunnel, dribbling, tiri assassini (e ovviamente anche il colpo di mano, perfezionato contro gli inglesi nell’86, ritratto nella copertina disegnata da Guido Scarabottolo) mostrato nei campetti polverosi di Villa Fiorito dal povero ragazzino che sognava di andare al Mondiale e diventare campione. Il suo alter ego partenopeo, invece, rifugge dalla carriera familiare, militari o medici, in un interno borghese con i suoi rituali e i suoi fantasmi, ammaestrato dal dolce esempio dei nonni, coltivando una scrittura acuminata e secca in uno stile fortemente originale, avvicinandosi e allontanandosi a più riprese al suo Mito, quello che vedeva dal balcone di casa e scappò via dalla città in una terribile sera del 1991 quand’era appena sedicenne, lo stesso che si era infiltrato di nascosto dietro la rete di un rettangolo verde a Posillipo dove Diego giocava addirittura in porta nelle partitelle con gli amici dove il pallone non era lavoro ma respiro, tela o pietra da plasmare, eterna fanciullezza. Se le generazioni degli anni ’60 hanno avuto i Beatles col loro messaggio di ottimismo e gioia di vivere, quella dello scrittore ruota intorno alle disastrose stagioni cittadine e all’ultimo Re di Napoli col suo spirito un po’ tamarro e parecchio litigioso, pronto a impelagarsi in questioni inutili con mezzo mondo, dedito ad eccessi d’ogni tipo, dalla cocaina agli show politici (comparendo persino al fianco di Maduro alle ultime elezioni politiche venezuelane), guapo sfacciato e insolente, «che tiene insieme Joe Strummer e Fidel Castro, gli sceicchi e i poveri, l’umanità e l’eros, Borges e Boccaccio, in una metamorfosi continua che aveva un solo comune denominatore: la rivolta -scrive Ciriello- Maradona è un rivoltoso che giochi a pallone o no, per questo la sua è un’avventura irripetibile. E a mano a mano che Maradona avanza, travolgente e irresponsabile, il mondo si divide: con lui o contro di lui». Come in quest’ultimo Mondiale dove ha giocato il ruolo di totem portafortuna della sua Argentina, col corpaccione sfatto e lo sguardo perduto, elargendo discorsi farraginosi e sognando miracoli in campo, quelli fatti in un altro tempo sperperandosi con tutto il cuore.