Conviene giocare a carte scoperte. Non si parla solo della produzione eclettica di un filosofo sottile e militante tenace che è stato anche brillante giornalista culturale. Gli articoli di Paolo Virno usciti su questo giornale tra il 1988 e il 1992, buona parte dei quali raccolti ora nel volume edito da DeriveApprodi Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione (pp. 320, euro 20) sono stati la colonna vertebrale di un lavoro collettivo di ricerca che si articolò allora in alcuni libri e riviste, ma anche e per certi versi soprattutto sulle pagine del manifesto. Rileggere quegli articoli significa dunque ripercorrere quella ricerca e verificare quanto ci fosse di acuminato e quanto invece di abbaglio: la lucidità prospettica e le eventuali sviste.

SONO ARTICOLI pensati spesso da un giorno all’altro, sotto la sferza delle agenzie di stampa o dell’incalzare di un dibattito, dettati dalla suggestione di un libro, di un film, di una serata passata a fare zapping. La frammentarietà proibisce ogni velleità sistematica, nega la possibilità di uno sviluppo ordinato del discorso. Quel che si guadagna è però più di ciò che si perde: proprio la caoticità degli argomenti in apparenza affastellati permette di aggredire quel che allora era il presente da una molteplicità di punti di vista, alla ricerca dei nessi nascosti presenti tanto in un film di effimero successo quanto nei «grandi dibattiti» culturali o nelle discussioni sull’orario di lavoro. Restituisce il dna di un’epoca rintracciando le spinte di fondo di una fase in cui più nulla «si teneva» e lo sfaldamento inesorabile delle antiche certezze teneva banco.

Sotto la lente di un’analisi marxista priva di ogni dottrinarietà scolastica c’è il decennio che era allora appena trascorso e che aveva modificato con l’impatto di una catastrofe nucleare l’intero panorama sociale: gli anni ’80 del secolo scorso. La lettura degli anni ’70 è però a propria volta centrale, orienta e spiega anche la visione del decennio successivo. Di quello che ancora oggi definiamo un po’ grossolanamente «il movimento del ’77», Virno sceglie di esaltare non il rosseggiare di un tramonto ma il bagliore di un’aurora. Non la fine di un ciclo ma l’anticipazione di quello a venire: l’emergere intrecciato di una nuova dinamica della produzione del valore e di una nuova soggettività sociale. Con il «Settantasette» si annuncia un’epoca nella quale «il lavoro manuale non è più competitivo» e «la fatica fisica è diventata antieconomica»: una torsione radicale che il movimento cerca di declinare in senso inverso rispetto alla sterzata neoliberista «segnalando a modo suo il carattere socialmente parassitario del lavoro sotto padrone».

NON SIGNIFICA minimizzare la portata della sconfitta. Al contrario, nell’analisi di Virno è già lucidamente presente ciò che diventerà poi evidente nei decenni successivi: la portata della sconfitta degli anni ’70 è stata incalcolabile proprio perché lì si è giocata la partita su chi avrebbe gestito e in quale direzione l’enorme trasformazione degli anni ’80. Una guerra persa al confronto della quale persino le più cocenti sconfitte precedenti appaiono scaramucce.

A segnare gli anni ’80 è infatti per Virno proprio la gestione padronale della fuoriuscita dalla società del lavoro sotto l’egida e l’egemonia della società del lavoro. La sproporzione tra tempo di produzione e tempo di lavoro, esistente da sempre, raggiunge proporzioni di eccedenza del primo rispetto al secondo tali da rendere il lavoro vivo quasi superfluo.

In compenso, si afferma nella produzione di valore un primato della produzione intellettuale, intesa nell’accezione più vasta del termine. Da un lato l’esigenza concreta di tempo si riduce all’osso, dall’altro però ogni attività, dunque anche l’intero tempo libero, viene «messa in produzione», diventa formazione permanente, spesso produzione immediata. In prospettiva, gli articoli di Virno anticipano il dilagare delle app, l’affermarsi delle Corporations come fronte avanzato dello sviluppo, con ruolo non dissimile da quello esercitato nella fase della produzione industriale di massa dall’industria dell’auto.

SE PARLARE dei tardi anni ’70 significava già allora discutere di quel che avrebbe potuto essere, cioè della piega che avrebbe potuto prendere la nuova rivoluzione industriale con un diverso esito dello scontro di classe, affrontare il presente, la fine degli anni ’80, voleva dire cogliere le potenzialità di liberazione latenti e implicite in quella stessa rivoluzione ormai dispiegata. Dunque la possibilità di trasformare il precariato da strumento di dominio a potenzialità di affrancamento, la fine dell’identificazione con il posto di lavoro fisso come schiudersi di un ventaglio di possibilità. La «contesa sul tempo» era individuata di conseguenza come fulcro di uno scontro di classe già in corso.
Le stesse competenze richieste dalla nuova dimensione post-manifatturiera rendevano inevitabile un accumulo di «saperi, informazioni, ’scienza dell’organizzazione’ da parte del lavoro dipendente» che apriva alla possibilità di contrapporre forme di cooperazione sociale autonome e liberata a quelle messe a regime e profitto dal Capitale.

È A PARTIRE da queste basi che Virno si chiede se la nuova forma del conflitto politico non sia destinata a slittare dal terreno della presa del potere a quello della defezione, della sottrazione dalla presa dello Stato, di una sorta di esodo. Non in una sola riga però traspare anche solo un indizio di determinismo, ottimismo facilone o peggio apologia del presente. In ciascuno di questi articoli campeggia la consapevolezza di trovarsi di fronte a una potenzialità destinata a concretizzarsi solo in presenza di una nuova conflittualità sociale, dell’emergere consapevole di una soggettività ribelle.
Sappiamo come le cose sono andate. L’assottigliarsi del tempo di lavoro necessario si è tradotto in una sproporzione tra domanda e offerta adoperata come schiacciante strumento di dominio, in precariato come condanna, nell’imposizione di rispolverati modelli di schiavismo. Il rischio di una cooperazione antagonista è stato disinnescato con l’imposizione di una competizione spietata nei piani bassi e intermedi.

Nei decenni il quadro si è evoluto e perfezionato senza rinnegare le origini, senza mutare nel dna se non per il dilagare di una tonalità rassegnata allora, nonostante tutto, assente. Ripercorrendo questi articoli non si ha dunque mai la sensazione di essere alle prese con un nostalgico amarcord ma piuttosto di avere tra le mani una genealogia del presente e una mappa preziosa non per orientarcisi, impresa mesta, ma per sovvertirlo.