«Nessuna volontà di tensioni con Roma», fanno filtrare concilianti le immancabili «fonti Ue». Ma c’è un «però», affidato alle medesime fonti, e non è affatto trascurabile: «I numeri non sono quelli degli accordi presi». Il rapporto deficit-Pil non sta all’1,8%, come concordato in primavera e questo si sapeva in partenza. Però non sta neppure a quel 2% fissato nel Def. E’ lievitato al 2,3%, e senza consultare i guardiani di Bruxelles. Non è il preludio a una bocciatura annunciata e la Ue sta molto attenta a sottolinearlo, sia pur sempre in via informale: «Aspettiamo di vedere i documenti per capire come saranno giustificati gli scostamenti. Poi si deciderà».

I documenti sono prima di tutto il testo di una legge che sino a ieri era ancora allo stato di slide. Era atteso per la mezzanotte di ieri. In realtà non si tratta del testo definitivo: quello sarà messo a punto solo il 20 ottobre, quando la legge verrà trasmessa alle camere, ma intanto la Ue, e a Roma l’Ufficio parlamentare di bilancio, lavoreranno sul grosso della manovra. La risposta sull’eventuale accettazione o sul respingimento arriverà, assicura stavolta in via ufficiale Bruxelles, prima del referendum.

Il governo, nonostante il monito appena camuffato, si sente sicuro. «La legge è solida. Sarei molto sorpreso se Bruxelles la rimandasse indietro», afferma il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, fedelissimo del premier. Poi si allarga in previsioni: «La Commissione si divertirà a giocare con i numeri e su singole misure, perché questo è quel che ormai fanno. Ma la farà passare». Il tono sprezzante rivela che il governo se non sta proprio andando sul sicuro ha scelto almeno di correre un rischio calcolato. La bocciatura della manovra, cioè la non concessione della flessibilità aggiuntiva, sarebbe uno tsunami: si aprirebbe una voragine pari almeno a 8 miliardi e probabilmente di più: se dovessero essere rimessi in discussione i margini di flessibilità già concessi per l’anno scorso, la falla si allargherebbe a 19 miliardi.

Ma Matteo Renzi sa di poter calare sul tavolo due carte importanti. La prima è la paura dei barbari antieuropei alle porte. Una sconfitta del governo nel referendum, resa quasi certa dall’eventuale bocciatura della manovra, innalzerebbe il rischio ai massimi livelli. La seconda è la situazione della Francia, che secondo i calcoli di Roma sarà costretta ad appoggiare le richieste italiane prevedendo di doverne presto avanzare di simili. Da questo punto di vista l’esposizione favorevole del commissario all’Economia Pierre Moscovici è suonata tanto eloquente quanto rassicurante.

Non significa affatto che la partita sia facile o vinta in partenza. La Ue, come saggiamente profetizza Calenda, anche se si rassegnerà a vistare il grosso della manovra in nome di esigenze superiori non potrà probabilmente evitare di chiedere almeno limature e ritocchi. In particolare cercherà di rientrare in quel tetto massimo di un rapporto deficit-Pil al 2,2% che il presidente della Commissione Juncker aveva fissato con Renzi a Bratislava. Significherebbe un taglio delle risorse erogate di oltre un miliardo e mezzo. Per il governo sarebbe un sacrificio doloroso, essendo stata la distribuzione calibrata in modo da accontentare almeno un pochino tutti in vista del referendum.

Proprio per questo si può scommettere che almeno fino al 5 dicembre il governo terrà duro e anzi alzerà i toni, come ha fatto Renzi domenica: «La Ue vuole discutere le nostre spese per l’immigrazione? Ho un’idea: ci diano una mano e le spese di abbasseranno». E’ anche questa una strategia precisa. L’elettorato di centrodestra e in particolare forzista risulta quello più indeciso e permeabile alla propaganda del Sì, ed è un elettorato che gradisce assai un governo capace di tenere botta quando la Ue fa la voce grossa. Se poi le cose dovessero mettersi davvero male, se la Ue dovesse puntare i piedi, come da previsione di Calenda, su qualche centinaio di milioni in più o in meno, o su qualche «singola misura», ci sarà tutto il tempo di correggere con il solito maxiemendamento dopo il referendum. Per il momento non è la Ue la preoccupazione di Renzi. E’ covincere gli italiani a votare Sì. Fino al 4 dicembre, la legge di bilancio solo a questo deve servire.