La città che non dorme mai e ingoia di tutto ha una nuova attitudine slow che passa dal cibo fatto in casa, in strada, in giardino, sui tetti; è primavera e a New York fioriscono orti urbani, le rive dell’Hudson si popolano di canne da pesca e capita che i semafori, talvolta, ronzino e gocciolino miele rosso aromatizzato al maraschino. Non è l’ultimo soggetto post apocalittico di Terry Gilliam ma lo scenario indagato e descritto da Robin Shulman, giornalista americana (scrive anche per New York Times, Washington Post e The Guardian) in Eat the City.  Mangia la città (prima che ti mangi lei), una favola – recita un sottotitolo più lungo di quello dei Promessi Sposi- «di pescatori, foraggieri, macellai, contadini, badatori di polli, raffinatori di zucchero, tagliatori di canne, apicoltori, vinaioli e birrai che hanno costruito New York». Il paradigma culturale e sociale della fuga in campagna dei topi di città incalzati dalla crisi immobiliare e da mode sempreverdi si ribalta nella Grande Mela (e non solo lì): per mangiare sano non si torna alla natura, ma si fa tornare la natura in città.

È per questo che New York è fantastica! Commentano entusiasti gli urbanfarmer intervistati dalla Shulman, che nella sua ricognizione traccia di fatto un atlante segreto della città dall’economia nata portuale, poi divenuta manifatturiera e che ha spinto negli anni l’industria alimentare fuori dal tessuto urbano al grido di «abbiamo altro di cui occuparci». Mentre Michelle Obama a Washington pianta semi nell’orto presidenziale, dando il buon esempio a frotte di ragazzini, c’è Willlie, settantatré anni di Harlem, che al fianco delle sue zucchine ha ingaggiato una vera e propria battaglia per un posto al sole nel suolo urbano e l’ha sempre spuntata con gli amministratori locali, riportando il quartiere del rinascimento culturale afro-americano, alla sua antica vocazione: quattrocento anni fa i nativi Lenape vi coltivavano fagioli, grano e zucchine, appunto, e la terra, fertilissima, offriva con l’alternarsi delle stagioni mele, pere e distese di fragole, mirtilli neri e rossi , more, lamponi, castagne, orzo, ghiande. Una cornucopia inesauribile che fruttò autosufficienza economica e prosperità agli olandesi che, tempo dopo, vi si insediarono battezzando il luogo Nieuw Haarlem. Willie, originario della Georgia ha riversato nei giardini di Harlem il suo bagaglio di reminiscenze olfattive, e gustative, del Sud; «ogni essere umano è un pezzo di museo» scrive Robin Shulman «col dna abbiamo ereditato lingua, conoscenze e valori della gente da cui discendiamo e di quelli che sono venuti prima di loro; e una parte profonda e incrollabile di questa eredità è il cibo». Così come gli scrittori del Nord hanno portato a Manhattan le storie fiorite nelle piantagioni e i musicisti hanno suonato i loro ricordi in sessioni jazz il sabato sera, la gente «normale» ha portato ha ricreato il suo Sud nella maniera più ordinaria e immediata: cucinando. Willie ha passato oltre metà della sua vita a far crescere orti a Manhattan, l’ha vista diventare un quartiere «bene», da Middle Class, e spopolarsi di buona parte della comunità afro che a un certo punto non ha più potuto permettersi di vivere nel posto in cui era cresciuta. A capo di un’associazione di gardener Willie tiene a bada i politici, rifornisce di pomodori i sandwich del vicinato e promuove picnic nei giardini di città per la Festa della Mamma; e soprattutto ha imparato che qualunque desolato paesaggio urbano può trasformarsi in terra fertile. «Posso far crescere qualcosa» dice, e non è fanatico dell’organic, il biologico, anche se poi ha un metodo del tutto chemical-free per tenere alla larga uccelli e scoiattoli, i peggiori nemici newyorkesi delle sue coltivazioni: tirandogli dietro sassi di cui tiene scorte sempre ben rifornite, con buona pace degli animalisti, mica tanto teneri da quelle parti.

Se i giardini segreti scovati da Robin Shulman hanno storie affascinanti che intrecciano politica, tradizione, geografia e gastronomia, non meno romanzesco il resoconto dell’inchiesta tra agli apicultori. New York ne è piena, e vendono mieli al sapore dei quartieri, letteralmente. Le api di città, come anche gli esseri umani, trovano infatti nella metropoli nuove fonti di zucchero e un sacco di alimenti in più in tutte le stagioni, molto più di quelli reperibili in campagna nei mesi di non fioritura. E in mancanza di acacie profumate si buttano, come noialtri, sull’industriale: suggono il maraschino nelle fabbriche di cherry brandy e allarmano gli umani che si prendono cura di loro fabbricando un’inquietante miele rosso. Sono cittadine modello, le api, emigrano sui semafori, si ammazzano di lavoro per avere il superfluo, consumano la menta sintetica usata per produrre gomma da masticare, e il loro nettare poi più che d’ambrosia ha poi il sapore delle chewing gum del Ponte, per chi se la ricorda. Eppure, in questa sfilza di aberrazioni, riescono a difendere la biodiversità favorendo l’impollinazione e quindi la sopravvivenza delle numerose specie vegetali presenti nei contesti urbani.

Il racconto del cibo urbano, cui l’autrice riserva aggettivi insoliti per il genere «piccolo, puro, strano, personale, transitorio», si dipana rintracciando indizi ovunque anche nella toponomastica (Coney Island pare la chiamarono così i soliti olandesi, per la copia di conigli che vi scorazzavano), quasi scorrendo le voci di un menù, o quelle dei reparti di supermercato. Dopo miele e ortaggi viene introdotta la carta delle carni, dove a farla da padrone è Tom, un macellaio sexy in camicia di flanella che tra le sue missioni ha quella di «costruire una comunità umana attorno a qualcosa di figo che facciamo, che sappiamo fare». Inoltre orienta i clienti verso tagli di carne più economici e demodé ed è impegnato divulgare ricette sensata della vecchia scuola, perché «non di sole strisce di pollo può vivere l’uomo americano!». Mangiare meglio e consumare meglio, far crescere qualcosa e condividerla con gli altri, amici, vicini, clienti, sono le dichiarazioni che risuonano più frequenti tra gli intervistati di questa inchiesta romanzo storico sul cibo e hanno un valore e una capacità progettuale più forte e chiara di ogni moda alimentare o propaganda politica- e sicuramente molto americana quando si legge che la cosa più elettrizzante è riuscire a rendere la terra fertile prima che arrivi la Manna dal cielo.

Il tema della dignità sociale di chi produce cibo, e di tutti quelli che sono coinvolti nella filiera alimentare (spesso gente che si è fatta da sé, artisti ma anche uomini e donne molto normali) è un’altra delle piste seguite dalla Shulman in Eat the city, come evidente nel capitolo dedicato agli homebrewe, i birraioli. Protagonista è John, artista concettuale che ha messo l’arte da parte «perché ha troppe variabili» e gli ha preferito la birra «che è più costante: se il tempo è bello si beve per festeggiare, se è brutto promette e mantiene consolazione». Inoltre «la birra consente di essere creativi e di condividere quello che hai creato con gli altri: è un prodotto che tutti possono permettersi e gustarsi». E l’odore della condivisione è quello del malto, della salsa worcester e dei fuochi d’artificio spenti.

La storia della canna da zucchero invece (una «delizia, un elisir, una panacea che nasce da arti oscure») è quella di un riscatto e di una riconciliazione: tra Jorge che ha (im)portato la canna dal Portorico, dove sin da piccolo l’ha lavorata in condizioni durissime e l’ha piantata bel mezzo del Bronx in una parabola di vita che coincide con quella della città stessa «perché le forze che lo hanno portato qui» afferma la Shulman «hanno cominciato a cospirare ancora prima che esistesse questa città».

Jorge ha trovato il modo di offrire alla sua famiglia e alla sua nuova comunità «il privilegio della sola dolcezza della canna» evitandogli l’esperienza del lato sfiancante della sua coltivazione.

Infine le parti su pesce (che da marzo a ottobre abbocca alle esche di cinesi e tailandesi sul Lower East Side) e vino, cibi cari alle mense evangeliche, sono quelle in cui è più sentito e meglio espresso il tratto più tipico della fisionomia di New York: la mescolanza di etnie e il bisogno, per gli immigrati, di rituali capaci di riannodare il senso di appartenenza con comunità geograficamente lontane.

Il racconto sulle vigne verticali arrampicate per gli edifici dei borough di Brooklyn e Queen passa per le parole di Sal Meglio, tradotte dal broccolino da amici italiani dell’autrice, che ricordano la voce di John Fante e quella della famiglia Molise. Nel vino ci sono confraternite e fratellanze saldate nei giorni senza sole del proibizionismo. «Si fa vino per creare rituali e tenere insieme la famiglia in un Paese senza rituali né senso della famiglia. Fare vino è un tributo ai padri, è mettere il passato in un bicchiere e offrirglielo», e New York, nella sua mescolanza unica di ogni cosa, è la città ideale non solo per procacciarsi cibo con una storia ma anche per reinventarselo e tessere nuove trame. Perché mangiamo ciò di cui abbiamo nostalgia e ciò che vogliamo diventare, ci assicura Robin Shulman, i cibi dell’infanzia e i simboli delle esistenze verso cui vogliamo dirigerci. Fossero anche i campi di segale, dove poter giocare al sicuro, senza che il vecchio Holden o chi per lui, debba preoccuparsi di salvarci dal baratro.