Si è già all’occasione osservato come l’estensione dell’arcipelago Manganelli vada, post mortem, allargando i suoi confini, sporgendosi su terre sempre più incognite e rare. Di queste terre l’orografia varia dal punto minimo del sospetto apocrifo al punto massimo di capolavori prodotti, per dir così, inavvertitamente: da escavare, riportare in luce e, con santa dedizione, ricomporre. Così è stato per lo scoppiettio dei pareri editoriali, così è ora per Concupiscenza libraria (sempre a cura di Salvatore Silvano Nigro, Adelphi «Biblioteca», pp. 454, € 24,00), che presenta «il meglio di Manganelli recensore», allegando l’incantevole minaccia che il volume è previsto come primo di due il cui secondo è per ora ipotetico quanto a scadenza temporale.
Sull’andamento retorico, scoperte non ce ne sono: dato il sostantivo terribile, l’autore gli appioppa un aggettivo che non ti aspetteresti (tranne che avendo a che fare con Manganelli), e per esempio abbiamo «deliziose macellerie» e «magnifica demenza» e «sapientissime sgangheratezze». Questa legge casuale è uno dei punti reattivi prima del sistema nervoso-percettivo e poi della mente manganelliana: vedere «le tenebre del paradiso» o viceversa. Una locuzione – della gamma del genitivo a sorpresa o dello snodo logico inatteso – che definiremmo «particella-dribbling». Dai titoli all’indice (se sono redazionali tanto peggio, ovvero tanto meglio, vuol dire che Manganelli lì trascina e lì porta) si estrapolino: «Ghiro al miele a colazione», «Il budino col brivido», «La deliziosa vecchia amica dei lupi mannari». Così che, supponendo una bella dose di tranquilla perfidia, vedreste fintamente neutro «Il giardino dei Finzi-Contini»: e invece, per contro-sorpresa, si tratta di un pezzo ammirato sul romanzo di Bassani; ma per L’airone, annota Nigro con autonoma perfidia, in privato Manganelli si definì «un lettore che, quando non lo obnubilano stormi di negricanti bassani, è di emunctae naris».

Un campo di gratuità assoluta
Proiettandosi nel futuro, quando entrando la sua inconfondibile fisionomia a far parte delle vituperate storie letterarie solleciterà inchieste erudite, Manganelli riepiloga le questioni che saranno sollevate (Pinocchio-Menocchio, molto apprezzava i libri di Carlo Ginzburg). La pagina, del 1974, vuole attenzione per i motivi che si diranno: «L’imminente secolo ventunesimo sarà lacerato, per quel che riguarda l’indagine critica, da alcuni interrogativi agevolmente prevedibili: in primo luogo, quante volte andava al cinema, da ragazzo, il Manganelli? E poi: quali erano, fuori dai denti, da uomo a uomo, i suoi sentimenti per gli usignoli? E infine: che cosa pensava veramente il Manganelli delle foglie morte? Ma il Manganelli è il tipo che sentimenti siffatti, intimi e fatali, se li porta nella tomba: a dirla tutta, il Manganelli è un reticente e un vigliacco» (così invece non è Cassola, come l’articolo va a dimostrar stroncando). L’elencazione degli eventi può essere a solo scopo ludico, quindi senza scopo; ma può anche non essere ludica, e in somma occorre vedere che scopo abbia nel suo non averne. Se quelle fossero davvero le questioni rilevanti, per Manganelli? Se lo fossero potremmo concludere con agio che il campo dei fatti è in sé, oltre che nelle sue relazioni col pensiero o coi pensieri, un campo di alta, assoluta gratuità.
Vuol dire che, per quanto assurdo sia il criterio di misurazione delle cose, è, in quanto criterio assunto, esigente pratica rigorosa. Per esempio: Manganelli è un adoratore della tragedia e degli inferi: lo sappiamo anche da suoi titoli celebri, uno all’inizio dell’opera (Hilarotragoedia), l’altro verso la fine (Dall’inferno), un altro ancora postumo (La palude definitiva). Questa sua adorazione è una costante conoscitiva: perciò che fa Manganelli nell’affrontare Voce dietro la scena, l’auto-antologia di Praz? (Sulla questione è fulmineamente intervenuto su «Alias» Domenico Pinto). Concesso quel che c’è da concedere (Praz è «prosatore tra i massimi e non solo di queste generazioni»), benché a suo modo «“praziano” (dopo tutto, ho perfino finto di fare l’anglista)», in quanto lettore Manganelli non si sente «del tutto felice» e si chiede perché: «Mettiamo nel conto la mia naturale rozzezza, la gravezza libresca, il negato senso degli arredi, che fa della mia casa un’accozzaglia di oggetti traumatizzati e isterici. Detto questo, e forte di questo libro, credo che un “caso Praz” esista». Quale è dunque questo caso? «Praz è invaghito dell’attrezzeria della tragedia, dai costumi ai pugnaletti, alle languide fiale per l’addio, ma ha un segreto orrore della tragedia». Noterà il recensore del recensore come i riepiloghi per elencazione, pur ludici, siano tendenti, talvolta, alla tempesta. E poi si chiederà: che cosa c’è di errato nell’avere orrore della tragedia? Praz, continua Manganelli, «si rifiuta di considerare la qualità violenta, la mancanza di gusto, la discontinuità e insieme la costanza della morte»: che è frase insinuante sensi riposti, dal momento che di ogni cosa non si può non considerare «la discontinuità e insieme la costanza», tranne che non la si voglia considerare e basta; e Praz non la considererebbe, la morte. Ma si può ciò dire per l’autore di La carne la morte e il diavolo? No. L’artificio argomentativo di Manganelli però, con la visionarietà dei cocciuti, invera la propria tipicità, il gratuito. E inesorabile aggiunge, per buon peso, che Praz non vuol visitare gli inferi. Da ciò Manganelli osserva che Praz abbia trattato Shakespeare «con qualche elusività». Ora, trattare Shakespeare senza elusività vuol dire essere Shakespeare stesso, scrivere su di lui senza eludere vorrebbe dire semplicemente doppiarlo: e Praz no, non ne ha eluso il tragico, ma non ci ha sguazzato.

Innumeri tentativi di oltraggio
Però per Manganelli non va bene se le categorie non son le sue spiccicate: stabilite sue private categorie, le fa universali, per quanto ondivaghe. Qui stanno insieme la sua onesta disonestà, la sua oltranza, la sua faziosità e i suoi innumeri e saporiti tentativi di oltraggio. Il suo dribblare è ammirevole proprio perché rischia di lasciare andare la palla per conto suo, incantata o avvelenata, fornendo ogni occasione per il prodursi inatteso di un evento traumatico (e salutare, perfino paradossalmente salvifico). Che prenda il bersaglio o frantumi la cristalleria è di nessuna differenza. Ciò deriva dall’atteggiamento confessato con candore e astuzia in testa a una recensione per Meneghello: «Mi accingo a scrivere un articolo su Luigi Meneghello, e non ho le idee chiare. Sarebbe ragionevole che io aspettassi di averle chiare, ma debbo dire che “non avere le idee chiare” è una sensazione estremamente gradevole. È un po’ come andare a fare una gita in un territorio ameno ma non frequentato». Si tratta della critica come «improvviso per macchina da scrivere», dove i migliori botti finali e motti di spirito vengono all’impronta: magari dopo lungo rimuginio, ma pronunciandoli con l’aria che, suvvia, non ci si è pensato troppo. Per vedere l’effetto che fa, per vedere come va a finire (è cosa che si può tentare dopo anni e solo se, quando se ne sono avuti ventisette all’anagrafe, uno è stato «lettore vorace: onnivoro e tuttavia sistematico» e recensore che «sa accostare un libro e lavorare con prontezza un buon resoconto di lettura, scrupoloso e condotto con precisione fattuale», come lo disegna Nigro, di scorcio, nel suo denso ritratto finale). Un’altra volta, titolandosi, Manganelli aveva detto di «laboriose inezie», di un accanirsi scrupoloso sui margini: il loro clima stava e sta nell’escursione termica tra hybris e nihil, in una gioia cupa disperata e allegra. Concupiscenza, se insegna, insegna che la critica o è un fatto maniacale, una gimkana tra varie ossessioni, o non è. È dunque libro da dribblomane, pericoloso e inutile, perciò altamente consigliabile.