Il termine «manga» (manhua in cinese, manwha in coreano) significa «schizzi veloci». È composto dai due kanji: man 漫 «casuale», «capriccioso», «selvaggio», «indiscriminato» e ga 画 «immagine». Immagine frutto di «un pennello impazzito», come il maestro del disegno Katsushika Hokusai (1760-1849) definì la sua opera omonima. Sull’origine di questa parola vi sono tutt’ora molti dibattiti. La teoria più diffusa è che essa sia stata utilizzata per la prima volta nel 1814 proprio da Hokusai come titolo della raccolta di xilografie che riuniva i suoi disegni: Hokusai manga. Si pensa infatti che il fumetto giapponese abbia subito l’influenza degli ukiyo-e, letteralmente «immagini del mondo fluttuante». Queste stampe appartenenti al XVII-XIX secolo avevano la caratteristica di scandire lo spazio senza l’uso di tavole, in modo da attirare lo sguardo dell’osservatore da destra a sinistra suggerendo così il ritmo narrativo del racconto. Oltretutto, sia i manga che gli ukiyo-e facevano sovente uso di caricature e di una raffigurazione appiattita di tessuti e superfici. A causa della riproduzione in serie erano entrambe considerate dalla società forme di arte popolare di basso livello e poco costose.
Il proposito della mostra Mangasia Wonderlands of asian comics, ospitata al Palazzo delle Esposizioni fino al 21 gennaio, sembra proprio quello di voler sovvertire tale opinione rimasta latente all’interno delle società moderne. Curata da Paul Gravett, uno dei massimi esperti sull’argomento, quella di Roma è la prima tappa di una mostra itinerante dedicata ai manga, che si sposterà a Nantes a partire da giugno 2018. Il progetto, voluto dal Barbican Centre di Londra, propone una lettura della complessa ed eterogenea produzione di fumetti in Asia, attraverso i loro molteplici linguaggi e diverse tipologie (manga di guerra, saghe dinastiche, amore omosessuale, cibo etc.). Nelle sale del museo è stata riunita la più vasta raccolta mai esposta di tavole originali di fumetti asiatici, spesso inediti e rari, molti dei quali prima d’ora non avevano mai varcato i confini dei loro paesi natii.
Al primo impatto la mostra sembrerebbe travolgere lo spettatore, confuso e bombardato dall’enorme quantità di materiale esposto e stipato nelle teche di vetro. In realtà, dopo l’iniziale smarrimento, si viene quasi subito catturati e trasportati in un curioso viaggio – dall’India al Giappone, passando per territori generalmente meno esplorati come il Tibet, Bhutan, Vietnam, Mongolia, Filippine, fino ad arrivare alle due Coree (nord e sud) – alla ricerca delle radici storiche del manga, scoprendo l’influenza che hanno avuto su di esso la letteratura, l’arte, i miti e le credenze popolari. Il leggendario Goku protagonista di Dragon Ball di Akira Toriyama non è altro che la versione romanzata di Scimmiotto, personaggio chiave di Il viaggio in Occidente (1590 ca.), classico della letteratura cinese.
Molto interessante è la scelta del curatore di accostare le tavole moderne con i campioni più antichi ottocenteschi (Hokusai, Kuniyoshi etc.) permettendo così al visitatore di cogliere con immediatezza le varie influenze. Sono esposte anche alcune tavole originali sulle quali si scorgono tracce di bianchetto e schizzi, accompagnate da video che ritraggono i mangaka in azione, mettendo in luce i processi creativi di questo genere espressivo. Non è stato trascurato neppure il lato oscuro relativo alla produzione e all’industria del manga: la competizione e lo sfruttamento dei mangaka che in alcuni tragici casi porta al karoshi (morte per troppo lavoro).
La mostra è costruita su di un percorso tematico diviso in sei parti. Tra le più significative quella dedicata al manga in quanto strumento di critica sociale e politica dove l’autore si fa ambasciatore dell’indipendenza del proprio paese. Come Munnu: A Boy from Kashmir (2012) di Malik Sajad che ha lo scopo di ridare voce ai suoi connazionali, mentre Io sono comunista (2010) di Park Kun-woong racconta la terribile storia della Corea divisa. Purtroppo, il destino di molti manga politici è stato stroncato dalla censura. Uno dei primi casi è quello di «Modern Sketch», rivista satirica cinese molto innovativa, la cui pubblicazione fu sospesa dopo soli tre anni di attività nel 1937. Essa è ancora considerata il punto di riferimento del fumetto satirico cinese. Il viaggio all’interno di Mangasia culmina con gli ultimi sviluppi digitali rappresentati dai webtoons, i video giochi, gli anime e persino la musica con la cantante-ologramma Hatsune Miku, analizzando allo stesso tempo l’impatto sul cinema, la moda e l’arte contemporanea.
Questa mostra introduce un argomento poco affrontato in Italia, poiché considerato appartenere alla cultura di massa e quindi snobbato dagli intellettuali. In un certo senso essa sembra voler sollevare una problematica che assilla da tempo gli specialisti del fumetto: i manga posso essere considerati una forma d’arte? È possibile «nobilitarli»? Anche se probabilmente la situazione è leggermente cambiata negli ultimi anni, molte istituzioni artistiche continuano ad avere una visione distorta del fumetto e i musei di arte contemporanea si aprono molto raramente a questo medium espressivo. Persino in Giappone l’esposizione dei manga in istituzioni museali spesso è solamente strumentale, demagogica e momentanea.