Il Globo d’Oro per il miglior documentario è stato vinto quest’anno da Vulnerabile bellezza, il film «fuori tempo» che Manuele Mandolesi ha girato sui luoghi del terremoto nelle Marche, tra Ussita e Visso, iniziando, nel 2017, quando già microfoni e riflettori avevano abbandonato il campo, con l’idea di finirlo due anni dopo, quando ormai del sisma sarebbero stati vuoti pagine di giornali e teleschermi. Vincitore come miglior italiano al Festival dei Popoli nel dicembre scorso, il film è un nitido intimo racconto che con autentico stupore scopre le vite di una coppia di allevatori e dei di loro due figlioletti nel tempo solitario e sfiancante del post-terremoto, tra la migrazione costante da un alloggio di fortuna a un altro, il lavoro con gli animali in montagna e i semplici intensi momenti di rannicchiamento familiare. Vulnerabile bellezza si nega ai cliché e alle strade già battute, e senza evitare qualche passo falso – che resta a testimoniare l’autenticità della ricerca autonoma del regista – racconta una storia drammatica, le ferite e i traumi che essa produce, evitando di spingere i suoi protagonisti nel ruolo degli eroi e liberandosi dei registri canonici, delle retoriche pietistiche, del birignao della critica politica o dell’epopea tragica. Con una delicatezza fuori dal comune, Manuele Mandolesi riesce a registrare la somiglianza quasi palpabile tra i volti dei due allevatori, la forza e la gentilezza dei loro corpi sempre tesi, sempre in movimento e quella del paesaggio che li circonda, e sul quale si posa ogni giorno il loro sguardo d’interrogazione, di timore e di gratitudine.

Ha acquisito gli strumenti del mestiere da onesto artigiano, trovandoti poi a un certo punto a sentire la necessità del passaggio al cinema non commerciale. Interessante soprattuto che nel momento stesso in cui lei sentiva questa necessità, abbia scoperto di avere gli strumenti per diventare autore cinematografico rovesciando, ribaltando tutto quanto aveva appreso da artigiano nella televisione e nel «cinema di consumo».
Ho iniziato così, io dico da «operaio multimediale». Mi sono laureato, ho fatto un master, ma la mia nascita professionale è avvenuta con il lavoro da montatore e regista nelle televisioni locali. Così ho conosciuto il mondo del documentario. Quando vedi cinque, sei, sette documentari al giorno per mesi e mesi inizi a pensare a come li faresti tu, inizi ad appassionarti. Poi è venuta l’esperienza dell’approfondimento sull’attualità che per me è stata una palestra eccezionale sia sul piano personale – perché ho conosciuto persone di tutti i tipi – sia su quello tecnico e professionale: fai parte del circo mediatico, ma nello stesso tempo cerchi di approfondire, di fare il primo passo oltre la pura cronaca. Come dicevi, a un certo punto è venuta quella che chiamo la «necessità del linguaggio»: dare un senso al linguaggio, il bisogno che il linguaggio stesso diventasse senso all’interno del racconto.
Ogni film poi ha un suo stile. Quando fai un documentario secondo me il linguaggio te lo suggerisce la storia, il rapporto che hai con le persone. Penso che il mio prossimo film non lo farò come ho fatto questo, avrà tutto un altro linguaggio, ma nascerà dalla stessa necessità.

«Vulnerabile bellezza» è per progetto un film che non vuole essere appetibile secondo certi schemi, non solo commerciali. Che cosa si scopre lavorando in una parte di mondo che sembra non interessare a nessuno, intervenendo attraverso il cinema su questo spazio già raccontato, usato, depredato? Qual è stata la sua scoperta più importante o quale la cosa che tiene vivo il suo interesse per questo lavoro in fondo più faticoso e più pieno di rischi?
Quando racconti, lo fai in tanti modi diversi: il giornalista inviato, quello che fa reportage, l’intervistatore, ognuno usa un modo diverso di raccontare le cose. A un certo punto ti rendi conto che facendo parte del sistema mediatico puoi guardare dall’altra parte, nella direzione opposta, puoi chiederti: ma perché tutti guardano nella stessa direzione? Quando inizi a stravolgere, a rivoluzionare il punto di vista ti rendi conto che puoi raccontare la stessa situazione in maniera diversa, ti rendi conto che alla fine racconti le persone, che in fondo tutte le storie che racconti nascono da lì. Vulnerabile bellezza non è la storia di un terremoto, è la storia dei legami interni a una famiglia, del legame con la terra.
Quindi la risposta alla prima parte della  domanda è: le storie delle persone. Alla seconda parte, rispondo invece: la curiosità che ho nel conoscere le vite segrete delle persone, cosa c’è dietro il loro aspetto, il loro comportamento. Conoscere cose nuove e capire come raccontarle per me è una sfida sempre avvincente.

Quest’anno è diverso dagli altri, la pandemia ha stravolto tutto. In generale però un premio come il Globo d’Oro arriva a distanza di parecchio tempo rispetto al clou dell’uscita e a tutto quello che ne consegue. Per un documentario, non solo per il suo, ma per un qualunque altro film indipendente che segue schemi tutti diversi dalle dinamiche canoniche, che cosa rappresenta e cosa può portare con sé un premio come questo?
Ho avuto uno scambio acceso proprio ieri con un hater che mi accusava di aver lucrato sul terremoto, quando invece questo film è del tutto autoprodotto: un po’ con soldi miei, un po’ con un piccolo crowdfunding e un po’ pitchandolo direttamente alle aziende del territorio che erano invitate a finanziarci in cambio di visibilità. Soldi pubblici proprio non ne abbiamo presi. Dunque ti rispondo: il premio è una soddisfazione prima di tutto sul piano produttivo; lottavamo con i mostri sacri candidati insieme a noi. Ero già molto contento della sola selezione al Festival dei Popoli, poi anche lì il film ha vinto un premio (Premio al Miglior Film nel Concorso Italiano ndr.). Il Globo d’oro è stato un’ulteriore soddisfazione. A me bastava anche solo esser riuscito a finire il film.
A me piacerebbe che il film seguitasse a far parlare del sisma nel corso degli anni, con l’attenzione dei media ormai abbondantemente esaurita. È stato fin dall’inizio il mio scopo principale. A cosa servono dunque i premi? A far parlare del film. E far parlare del film significa magari avere più possibilità di distribuirlo.

Pensa che «Vulnerabile bellezza» le sia servito a costruire un metodo sia sul piano artistico che sul piano produttivo?
Decisamente sì. Il film è stata una grande palestra, naturalmente ho fatto anche grandi errori, ma mi è servito per imparare a collegare tra loro l’osservazione, la riflessione, la scrittura e il momento della ripresa per riuscire a cogliere al primo tentativo quello che cercavo.
Sul piano produttivo sono andato da tutte le aziende che rispondevano alle mie mail. Ne abbiamo consultate un centinaio, avranno risposto in dieci; ad ogni azienda che mi dava udienza presentavo il progetto del film in dieci minuti. Qualcuno mi ha creduto. È un sistema che può funzionare. Iniziare ad avere un nome certamente aiuterà a sfruttare meglio questo metodo. Si sono fidati di quello che dicevo e delle immagini che mostravo.
Nei titoli di coda ci sono i nomi delle quattro aziende che ci hanno sostenuto. Secondo me se lo meritano perché hanno creduto a un folle che ha operato come forse non ha fatto mai nessuno prima. Ho trasferito i pitch nelle aziende. Poi abbiamo fatto tutto con pochi soldi.